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Il desiderio fanciullo

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Il desiderio fanciullo

“Lo sai” esordì la nonna “che il Cielo esaudisce un desiderio autentico e profondo espresso quando si è bambini? È un dono esclusivo concesso a chi chiede con un cuore fanciullo”.

Diana la guardava con gli occhi fissi, attendendo che proseguisse quel racconto, mentre le sue mani cercavano di recuperare la farina sparsa sul tavolo; si sentiva accolta in un segreto che la nonna voleva condividere solo con lei.

“Tempo fa c’era un bambino, non così piccolo a dire il vero, aveva all’incirca la tua età, quell’età che precede di poco l’adolescenza, ma era ancora fanciullo e puro nei pensieri e nei desideri. Lui aveva un cuore buono, pulito come l’acqua di fonte che bevi in montagna. Cominciava a guardarsi attorno e a paragonare quel che veniva dalla sua storia con quanto gli accadeva attorno. Si era accorto di fare fatica nelle relazioni, non gli riusciva facile aprirsi o parlare di sé, al punto che aveva cominciato a imitare, anche nelle espressioni facciali, le emozioni degli altri, pur di partecipare alla vita. Aveva in sé un groviglio di sentimenti da districare, perché la sua natura era particolare: non riusciva a spiegare con le parole tutto quello che gli accadeva dentro. Sentiva, sentiva, ma era come se il condotto dal cuore al viso fosse ostruito e le sue espressioni naturali non spiegassero davvero quello che avveniva in profondità. Il calore che veniva raccontato nelle pubblicità, nei libri, che lui leggeva in altri contesti, diversi dal suo, era qualcosa che lo attraeva come le api al miele e avrebbe voluto anche lui assaggiarne un po’, forse l’avrebbe fatto suo o forse avrebbe imitato qualcosa che non riusciva a possedere e che gli sembrava dolce come quelle ciliegie rosso brune che schizzano la polpa sul palato.

Un giorno vide o gli sembrò di vedere che cosa fosse l’amore. Allora, in un pomeriggio di pioggia, chiudendo gli occhi, espresse il suo desiderio, quello autentico che si esprime una volta sola, coordinando cuore e mente. Chiese per la sua felicità una donna bella e calda, piena di parole, capace di raccontare a lui di lui, voleva un focolare e una narrazione che lo facesse vibrare, che lo facesse sentire amato per sempre e nient’altro.

Passarono gli anni e Dio fece per lui proprio quello che aveva chiesto.

Per un po’ gli sembrò che quel tepore gli aprisse un varco, gli desse un vocabolario e così, insieme, costruirono cose belle finché si accorse che non bastava un linguaggio solo per stare al mondo, ma che aveva bisogno anche delle sue parole per imparare ad amare. Non volle tuttavia confessare quella fragilità e, preso dallo sconforto e dalla mancanza di racconto, spinto da un terribile orgoglio, scappò via, alla ricerca di un vocabolario tutto suo, senza chiedere aiuto a nessuno. Quando si trovò solo e provò a parlare, dalla sua bocca uscirono solo parole sghembe e narrazioni incoerenti, così, avvitato tra i suoi pensieri, si rifugiò nella tempesta alla ricerca di una casa che avesse pace”.

“E poi?”

“E poi, non lo sappiamo con esattezza, qualcuno disse di averlo visto in riva al mare a litigare con il vento, ma il vento mugghiò più forte e le parole di lui si confusero con le raffiche al punto che, ancora oggi, quando il maestrale soffia forte sul mare puoi distinguere qualche parola che tenta di vincere una battaglia persa”.

“E lei?

“Raccontano che lei avesse conservato a lungo in uno scrigno tutte le parole che mancavano a lui, non capendo che i doni non si impongono, ma si offrono.

Soffrì per questo amore sbilenco finché fece memoria di quello che aveva desiderato da bambina con tutta l’anima. Aveva quasi dimenticato di quando, piantando il bulbo di un iris, seduta sulla nuda terra, non desiderò altro, davvero nient’altro, che un giardino tutto suo per fiorire”.