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L'esimente della motivazione culturale del reato nella Common Law statunitense

Le anime della notte
Ph. Paolo Panzacchi / Le anime della notte

L'esimente della motivazione culturale del reato nella Common Law statunitense

 

Multiculturalità e “cultural defense”

Negli Anni Ottanta del Novecento, negli USA, iniziò a porsi il problema del rapporto tra Ordinamento giuridico e società multiculturale. Tuttavia, come nota Friedman (2002)[1] “le richieste dei movimenti dei diritti civili sono però cambiate […]. All'inizio, l'obiettivo era l'integrazione; ciò che i neri volevano era, in sintesi, l'assimilazione, o, almeno, il diritto a poter essere assimilati […]. Il grido era: vogliamo la nostra parte di America […]. Ma, con gli anni, gli obiettivi sono drasticamente cambiati: non più assimilazione o eguaglianza politica ed economica. Non più: lasciateci entrare. Ora l'obiettivo è un altro: siamo diversi, siamo noi stessi, siamo una nazione separata, una cultura separata”. Dunque, da circa una trentina d'anni, gli Afroamericani tendono a riscoprire la lor propria particolarità etnica. La ratio dell'integrazione lascia spazio a quella dell'orgoglio etnocentrico ed autonomista. Del pari, negli Anni Novanta del Novecento, Glazer (1997)[2] evidenzia che “l'attenzione [delle minoranze] si concentra completamente sul particolarismo e sulla dimensione etnica”. Il desiderio di conservazione della diversità prende, pertanto, il sopravvento sulle spinte assimilazioniste. Il fine delle rivendicazioni etniche viene ad essere quello dell'autonomia e, dunque, della conservazione delle tipicità.

A ben vedere, in ogni caso, la fattispecie statunitense non costituisce la normalità. Infatti, come notato da Tienda (1999)[3], negli USA, a partire dagli Anni Ottanta del Novecento, l'immigrazione asiatica e sudamericana aveva creato nuove minoranze; per conseguenza,, il problema dell'assimilazione delle persone di pelle nera era ormai passato in secondo piano. Era mutata la composizione etnica delle “minorities”, che ormai provenivano dall'estremo Oriente e dal sudamerica. Anzi, ad onor del vero, bisogna anche ammettere che, negli Stati Uniti d'America, gli Afroamericani contemporanei subiscono meno discriminazioni in raffronto ad altri gruppi etnici quali i Cinesi, gli Indiani, i Messicani o i Brasiliani. Dopo la caduta del muro di Berlino, perlomeno negli USA, la composizione etnica degli immigrati è completamente cambiata, facendo passare in secondo piano la problematica dei neri d'America. Entro tale nuova prospettiva ed alla luce delle nuove ondate migratorie, nel 1986, sulla Harvard Law Review, compare un Articolo anonimo, firmato semplicemente “note”, intitolato “La cultural defense nel Diritto Penale”, ove per “cultural defense” s'intende la possibilità di attenuare o, addirittura, scriminare i reati culturalmente motivati, ovverosia determinati da regole illegali per lo Stato ospitante, ma legittime nel Paese di provenienza dello straniero. La proposta di note (1986)[4] è quella di giungere, nella Giuspenalistica statunitense, ad un “riconoscimento formale, da parte del Diritto positivo, della cultural defense, l'unica soluzione che consenta al sistema americano di non rinnegare gli ideali di giustizia e di pluralismo che sono fondamentali per la sua sopravvivenza”. In buona sostanza, note (ibidem)[5] chiedeva la possibilità, per l'infrattore immigrato, di invocare, a titolo attenuatorio o, financo, esimente la “normalità” della condotta illecita nella propria Nazione d'origine; ciò anche se, nello Stato d'accoglienza, il comportamento è qualificato come illegale.

Dunque, note (ibidem)[6] postula che la cultural defense deve prevalere, in tanto in quanto il reo appartenente ad una minoranza etnica non reca alcuna auto-percezione del disvalore giuridico della propria condotta, la quale, anzi, è reputata “ordinaria” alla luce delle tradizioni socio-giuridiche dell'Ordinamento di provenienza. Con attinenza allo sdoganamento della cultural defense, Foblets & Renteln (2009)[7] hanno messo in risalto che “sono passati più di vent'anni dalla pubblicazione della note ed il dibattito sulla formalizzazione della cultural defense è ancora aperto. E' una discussione certamente più approfondita nella Letteratura statunitense, ma che non può più essere confinata agli USA e catalogata come una questione americana. Il dibattito penalistico sulla cultural defense è, infatti, diventato un tema del giorno: è un problema che ormai coinvolge tutte le democrazie postmoderne, che si stanno trasformando in società multietniche e che sono chiamate a dichiarare il loro quantum di tolleranza nei confronti della diversità culturale”.

Chi redige si dichiara drasticamente contrario al riconoscimento della cultural defense nel Procedimento Penale. Attenuare o scriminare un reato nel nome della motivazione culturale significa giungere ad una deminutio della sovranità statale, la quale non può e non deve tollerare la genesi di sotto-gruppi non integrati sotto il profilo dell'ordinaria cogenza universale del Diritto Penale. Giustificare anche soltanto una contravvenzione nel nome di tradizioni tribali o, ognimmodo, non autoctone porta ad un Ordinamento anarchico che lede la ratio della certezza del Diritto. Le Legislazione Penale dello Stato ospitante è sempre ontologicamente chiusa e non estensibile attraverso la cultural defense e nel nome di un presunto rigetto di eventuali ideologie xenofobe. E' autolesivo affermare che il rispetto democratico-sociale dello straniero dovrebbe passare anche attraverso la legittimazione della cultural defense. P.e., l'ipostatizzazione lassista della “motivazione culturale” giungerebbe al punto di legittimare reati quali le mutilazioni genitali femminili, i maltrattamenti in famiglia, il matrimonio forzato, la poligamia o l'incesto rituale. Negare spazio ai culturally motivated crimes significa tutelare l'autonoma sovranità statale e ciò non è xenofobia, bensì tutela del buon funzionamento del sistema penale nazionale autoctono. Tale è stata pure la scelta della Francia, ove la minoranze sono anch'esse assoggettate solo e soltanto al Diritto nazionale, sanzionatoriamente imparziale e democraticamente uguale per tutti.

 

La nozione di cultural defense

Magistrale e ben strutturata, in Renteln (2002)[8], è la definizione tecnica di cultural defense, la quale “è una causa di esclusione o di diminuzione della responsabilità penale, invocabile da un soggetto appartenente ad una minoranza etnica con cultura, costumi e usi diversi o, addirittura, in contrasto con quelli della cultura del sistema ospitante”. Pertanto, a parere di chi scrive, la cultural defense ha l'intrinseca tendenza alla formazione di un sotto-Ordinamento giuridico parallelo e co-sovrano. Altrettanto nitido ed esaustivo è pure Goldstein (1994)[9], il quale, negli anni di inizio delle nuove migrazioni globalizzate, specificava che “per far valere la defense, l'agente deve dimostrare che il comportamento illecito è stato realizzato nel ragionevole convincimento di agire in buona fede, basata sulla sua eredità o tradizione culturale”. Di nuovo, chi commenta ha motivi di dubitare che la summenzionata “buona fede”, nella maggior parte dei casi, sarà strumentalizzata nel nome di una prepotente colonizzazione legislativa del Paese ospitante. Renteln (2004)[10], strenua sostenitrice della cultural defense, distingue tra la cultural defense “cognitiva” e quella “volitiva”. La cultural defense cognitiva, secondo la predetta Autrice, “emerge quando il retroterra culturale dell'agente gli impedisce di capire che il suo comportamento integra un reato; in altre parole, l'imputato non si rende conto che le azioni dettate dalla sua cultura sono, invece, in contrasto con le leggi del Paese ospitante”. Diversamente, sempre secondo Renteln (2004)[11], la cultural defense volitiva “si verifica, invece, quando il soggetto è ben consapevole del fatto che le sue azioni sono vietate dalla criminal law dominante, ma egli agisce comunque, perché costretto dalla forza imperativa della sua cultura d'origine”.

Quindi, sotto il profilo dell'analisi della volizione, è possibile affermare che quella cognitiva è una cultural defense meramente colposa, mentre quella volitiva è una cultural defense dolosa e premeditata, il che rende valutabile come più grave, sotto il profilo sanzionatorio, la cultural defense volitiva rispetto a quella cognitiva. In entrambi i casi, comunque, a parere di chi commenta, la cultural defense intacca pericolosamente la sovranità dello Stato di accoglienza e, più o meno consapevolmente, apre la strada alla nomogenesi di Ordinamenti alternativi che, in definitiva, minano il basilare principio di certezza del Diritto; il tutto in un ambito assai delicato com'è quello del Diritto Penale.

Nella Common Law, l'istituto della cultural defense è sussumibile entro la categoria delle excuses. A tal proposito, l'anglofono Morse (1995)[12] specifica che “la teoria della cultural defense viene considerata come una manifestazione della tendenza di politica criminale degli ultimi anni, che mira a proporre nuove escuses, tese a giustificare le condotte criminose che trovano spiegazione nelle pressioni dell'ambiente e che hanno origine nella società malata”. E' inutile rimarcare l'inadeguatezza penalistica delle suesposte espressioni “pressioni dell'ambiente” e “società malata”. Tale tendenza alla totale de-responsabilizzazione arbitraria del reo si nota pure in Turk (1997)[13], che giunge al punto di legittimare la cultural defense nel nome della “tossicità dell'ambiente sociale che ha prodotto il comportamento”.

Totalmente a-tecnico e anarchicamente destabilizzante è pure Renteln (2007)[14], a parere della quale “la causa di non punibilità [della cultural defense] è la prova tangibile dell'ammissione, da parte del sistema, della propria (cor)responsabilità nel reato: una sorta di risarcimento per aver partecipato alla causazione del delitto invece di averlo prevenuto o impedito”. Come si può notare, per tal via, l'excuse della cultural defense disintegra la ratio della personalità della responsabilità penale ex comma 1 Art. 27 Cost. . Come messo in risalto da Kadish (1999)[15], la Common Law contemporanea ospita un gran numero di excuses (causa scriminanti) simili alla cultural defense. P.e., la tossicodipendenza cronica, il disagio socio-familiare o la violenza domestica passiva o assistita spesso attenuano o tolgono la responsabilità nella criminal law. Anche Wilson (1997)[16] asserisce che il Diritto Penale statunitense ha introdotto un numero eccessivo di eccezioni alla piena responsabilità individuale del reo. Secondo Mead (1997)[17] la cultural defense è l'ennesimo tentativo di “psicologizzare” la Giuspenalistica. In effetti, anche nelle Opere di Durkheim,  si teorizza un Diritto Penale più umanizzato, che sappia intercettare il malessere etico dell'infrattore, spinto al crimine da un clima di ingiustizia sociale che lo incattivisce e che provoca reazioni illecite. Similmente, Garland (1999)[18] rimarca anch'egli che i soggetti deboli, quali gli immigrati, non trovano, nella società ospitante, un clima di solidarietà, il che conduce poi alla chiusura etnica e, dunque, al culturally motivated crime. Del pari, Mead (ibidem)[19] propone i reati culturalmente motivati come un sintomo di “disagio psicosociale”.

 

Le nuove excuses e la compassion nei reati culturalmente motivati

Nella Common Law statunitense, le excuses, applicate ai reati culturalmente motivati, rinvengono una giustificazione etica. P.e., secondo Dressler (1988)[20], “le excuses sono riconosciute dall'Ordinamento perché vi è l'esigenza di rendere giustizia al soggetto che ha realizzato l'illecito, anche se ciò ha un costo per l'utilità sociale”. In altre parole, Dressler (ibidem)[21] reputa che l'infrazione culturalmente motivata dello straniero è sintomo di un disagio sociale e, per conseguenza, l'immigrato deve pagare il proprio debito con la giustizia, ma, sotto il profilo morale, il Magistrato deve tener conto anche dell'emarginazione a cui il reo è stato sottoposto dallo Stato ospitante. Anzi, per Fletcher (1978)[22], il Sistema penale deve manifestare una vera e propria “compassion” nei confronti del deviante delinquente, che ha agito in buona fede, in tanto in quanto la condotta incriminata non costituisce reato nel Paese di provenienza dell'immigrato non adeguatamente inserito e, quindi, moralmente inconsapevole del disvalore giuridico della propria condotta.

Per il vero, a parere di chi commenta, parte della Common Law statunitense è giunta agli estremi di un abolizionismo eccessivamente radicale ed impopolare; ovverosia, Dressler (ibidem)[23] arriva al punto di sostenere che “l'esistenza di un'excuse [nei delitti culturalmente/etnicamente motivati] comporta l'esclusione della punibilità dell'agente, nonostante il pericolo che egli può rappresentare per noi e nonostante egli abbia realizzato un illecito […]. Con l'excuse si chiede al sistema di mettere da parte timori e risentimenti quando [il giudice] decide se è giusto biasimare quel soggetto per il suo comportamento; ed è il sentimento della compassion che orienta i consociati e sposta il sistema dalla rabbia e dalla paura all'excuses”. Come si può notare, Dressler (ibidem)[24] esaspera l'attenuante della motivazione etnica e crea un abolizionismo radicale nel nome della ratio della “compassionevole” accoglienza dell'immigrato. Sicché, l'excuse dell'appartenenza al gruppo minoritario si trasforma da attenuatoria ad esimente; il che, per il vero, non è accettato da nessun Diritto Penale europeo. A parere di chi redige, Dressler (ibidem)[25] propone un utilizzo ipertrofico dell'excuse costituita dalla compassion; detto Dottrinario, infatti, moralizza eccessivamente la Giuspenalsitica, dichiarando che “la sua debolezza [dello straniero infrattore] è la nostra debolezza […]. L'excuse [della motivazione etnica] dimostra che siamo umani, che possiamo sentirci uniti alla persona che ci ha fatto del male”.

Trattasi di asserti che superano addirittura le più elastiche ed indulgenti posizioni manifestate dallo scandinavo Christie. Dunque, l'excuse della motivazione culturale manifesta un sostanziale disinteresse nei confronti della ratio della rieducazione carceraria; o, meglio, gli abolizionisti statunitensi reputano inutile affidare al carcere un infrattore che non verrà mai rieducato, alla luce del clamoroso fallimento dell'esecuzione penitenziaria negli USA. E' inutile incarcerare lo straniero, il quale assorbirà soltanto rabbia e desiderio di vendetta verso un Sistema socio-giuridico che si rifiuta di tutelare le minoranze non autoctone ed i loro usi e costumi. In effetti, Dressler (ibidem)[26] giustifica l'excuse di matrice etnica specificando che “molti criminali hanno sperimentato vite eccezionalmente dure. Gli abusatori spesso sono stati bambini abusati; donne che hanno ucciso i loro mariti sono state da loro maltrattate; altre persone hanno commesso reati dopo un trauma psicologico, generalmente fuori dall'ambito della normale esperienza umana. Insomma, dietro la brutalità di certi reati, vi è spesso una storia di emarginazione, di degrado sociale, di povertà e di violenza. Ed è dalla constatazione della responsabilità della società che ha creato l'ingiustizia che nasce la pietà, la compassione che impone di scusare l'autore del reato”.

Come si nota, il summenzionato Autore nega l'individualità della responsabilità penale e postula una “colpa della società” anarchica e totalmente avulsa dalla ratio rieducativa presente nei Diritti Penali europei. Non v'è dubbio che negare qualunque forma di responsabilità significa scardinare trecento anni di tradizione illuministica, per approdare ai lidi incerti e fuorvianti della “colpa collettiva”. Provvidenzialmente, Dressler (ibidem)[27] è stato veementemente contestato da Dershowitz (1994)[28], il quale parla di “abuso” dell'excuse del delitto etnicamente motivato; ovverosia “[l'excuse del condizionamento etnico] è una cinica tattica difensiva che copre una volgare licenza di uccidere […]. Non si tratta altro che di una moderna forma di giustizia privata. [L'excuse della spinta etnica] è il sintomo di un'abdicazione generale della responsabilità da parte di individui, famiglie, gruppi e Stato. [Non punire il reato culturalmente motivato] è una sorta di vigilantismo, che autorizza l'abusato a farsi giustizia da sé, visto che la legge ufficiale non provvede in modo adeguato. Si tratta, insomma, del riconoscimento esplicito, da parte del Sistema, di aver rotto il patto sociale con la vittima del reato, per non averle accordato la protezione necessaria e dovuta”.

A parere di chi commenta, Dershowitz (ibidem)[29], giustamente, frena gli entusiasmi filo-abolizionisti di quella parte di Common Law che aveva eccessivamente dilatato la precettività dell'excuse della motivazione culturale dell'infrazione. Dunque, la normalità dell'atto illecito nel Paese d'origine deve, al limite, recare ad un'attenuazione parziale della responsabilità e non ad una cancellazione totale della colpevolezza. Pertanto, il condizionamento etnico non può e non deve dilatare ad libitum la non punibilità, come insegna la ratio assimilazionista perentoria e categorica scelta dal Diritto Penale francese, ove allo straniero non è consentito di crearsi un Ordinamento giuridico alternativo. Sempre Dershowitz (ibidem)[30] si dissocia dall'indulgentismo politicamente corretto, in tanto in quanto alla tecnica giuspenalistica “[non interessano] le discriminazioni storiche subite da gruppi particolari […]. Queste nuove [ed ipertrofiche, ndr] defenses minacciano il tessuto della democrazia e seminano i germi dell'anarchia e dell'autocrazia”. Il testé menzionato Dottrinario è consapevole che l'excuse del reato culturalmente motivato reca all'auto-costituzione di Diritti Penali alternativi che minacciano la ratio kelseniana della certezza del Diritto in un determinato tempo e su un determinato territorio. Diverso, invece, è il parere di Falk (1996)[31], ad avviso del quale “l'emersione di new excuses non è un'aberrazione dottrinale […]. Il comportamento criminale è influenzato dalle condizioni sociali […]. I moderni manuali di psichiatria sono ricchi di contributi di studiosi delle scienze sociali, che documentano l'impatto delle condizioni ambientali avverse sulla psiche umana”. Tuttavia, a parere di chi redige, un conto è il “condizionamento”, un altro conto è parlare dell'excuse della motivazione etnica quale “circostanza totalmente scriminante”. Il Magistrato circostanzia l'infrazione, dunque eventualmente attenua la responsabilità, ma non la cancella, tranne nella fattispecie dell'infermità mentale.

 

Chi e cosa tutela la cultural defense

Come osservato da Marinucci (1991)[32], sotto il profilo soggettivo, “la causa esimente della cultural defense ha carattere personale ed è, perciò, riferibile a fatti commessi solo da persone che appartengono ad una cultura di minoranza”. Tuttavia, in Dottrina, non è pacifico quale sia, sotto il profilo oggettivo, la tipologia materiale dei reati che beneficiano dell'excuse della cultural defense. Secondo un primo orientamento, sostenuto in note (ibidem)[33], “[bisogna adottare] una versione ampia di [questa] excuse, la quale comporta l'esclusione, e non la semplice attenuazione, della pena per l'autore di un reato culturalmente motivato. […]. Questa costruzione non concepisce, però, la cultural defense come un'esimente assoluta, ossia valevole a giustificare la generalità dei reati”. Secondo un secondo orientamento, sostenuto da Renteln (ibidem)[34], “[bisogna adottare] una versione ristretta di [questa] defense, e cioè per la sola diminuzione della responsabilità del soggetto che ha commesso un reato culturalmente orientato, ma [questa interpretazione] opta per un ambito di operatività della defense totale, valido cioè per la generalità dei reati”.

A parere di chi scrive, in entrambi i casi, tali Dottrine aprono la strada a sotto-Ordinamenti alternativi che minacciano la piena sovranità del sistema statale. In effetti, anche note (ibidem)[35] si rende conto della sottile pericolosità e degli eventuali abusi della cultural defense e, perciò, corregge la propria impostazione specificando che “la cultural defense comporta sì l'esclusione della responsabilità dell'agente, ma i fattori culturali non sono rilevanti in caso di violazione di beni personalissimi ed indisponibili come la vita, l'incolumità fisica, la libertà sessuale e, comunque, tutti quei beni tutelati, direttamente od indirettamente, da fattispecie poste a difesa dei diritti umani inviolabili”. Dunque, note (ibidem)[36] si manifesta, giustamente, consapevole circa la necessità di evitare strumentalizzazioni de-responsabilizzanti ed ipertrofiche aventi ad oggetto i culturally motivated crimes. Del pari, analoga prudenza e senso della misura sono adottati pure da Renteln (ibidem)[37], il quale dichiara che “è fuori discussione che, ad esempio, il traffico e la prostituzione minorile violano i diritti delle donne e dei bambini […]. In situazioni del genere, pur riconoscendo che il diritto alla cultura è un diritto fondamentale, non si può non concludere che vi sono altri diritti umani che prevalgono sul diritto alla cultura”. Pertanto, anche la Common Law statunitense mira a prevenire fraintendimenti in malafede che condurrebbero ad un Diritto Penale anarchico, anti-democratico e, soprattutto, contrario alla piena eguaglianza dei consociati di fronte alla Criminal Law. P.e., note (ibidem)[38] puntualizza che “dal punto di vista dei diritti umani, la violenza sessuale è un comportamento che non è condonabile in nessun tipo di cultura. Esso toglie alla persona dignità, fiducia e potere”.

Come si nota, nuovamente la ratio della cultural defense possiede dei limiti di fronte ad uno “zoccolo duro”di reati meta-geograficamente e meta-temporalmente perseguibili. Altrettanto pertinente è l'esclusione della excuse della cultural defense per i “violent crimes”, che, come asserisce Li (1996)[39], “sono reati realizzabili con l'uso estremo della violenza fisica o psicologica: si pensi all'omicidio, alle lesioni personali o alle percosse […] [Bisogna escludere] i violent crimes dall'operatività della cultural defense [poiché] […] essi spesso violano i diritti umani universalmente riconosciuti [e] vi sono anche esigenze di prevenzione generale che inducono a scoraggiare e non ad incentivare i componenti di un gruppo etnico di minoranza dalla commissione di comportamenti lato sensu violenti”. Viceversa, Li (ibidem)[40] lascia aperta la porta della cultural defense per i “non-violent crimes”. Anche Guerra & Knox (2002)[41] escludono dalle excuses i violent crimes e qualificano la violenza, sotto il profilo criminologico e penale, come “ogni manifestazione esterna di forza fisica finalizzata a ferire, recare offesa o realizzare un abuso sulla vittima”. Tuttavia, specialmente con attinenza a condotte violente di matrice sessuale, note (ibidem)[42] specifica che la cultural defense vige comunque “in relazione ai violent crimes quando il reato si realizza tra persone adulte, consenzienti e capaci di consentire”.

P.e., si pensi pure a certuni rituali violenti legati alla c.d. “medicina alternativa” africana o asiatica. All'opposto, l'excuse della cultural defense è applicabile, negli USA, alla macellazione per uso alimentare di animali di compagnia. Si vedano, a tal proposito, Sec. 588 (b) e 599 (c) del Californian Penal Code, che ha voluto tutelare un'usanza asiatica culturalmente motivata e diffusa presso gli immigrati. Oppure ancora, Li (ibidem)[43] elenca non-violent crimes in uso presso la comunità cinese e sussunti entro la fattispecie dei reati culturalmente motivati, dunque attenuati o, in certi casi, totalmente scriminati. Per parte sua, Renteln (ibidem)[44] applica la cultural defense pure “al trasporto, al possesso ed alla detenzione di sostanze stupefacenti che sono utilizzate tradizionalmente dai componenti delle comunità Hmong, provenienti dal Laos, come medicinali”. Viceversa, lo stesso Renteln (ibidem)[45] esprime perplessità nei confronti di non-violent crimes quali “la poligamia, i matrimoni a termine o i matrimoni tra parenti stretti in uso in certe comunità musulmane”. L'essenziale, a parere di chi redige, è la tutela ferrea della sovranità, dunque dell'indipendenza dell'Ordinamento giuridico da forme di proliferazione anarchica di nuove fonti di produzione del Diritto

 

L'abuso della cultural defense come excuse penale

E' più che necessario che la motivazione etnica sia oggettiva, tangibile e non pretestuosa. Anche Renteln (ibidem)[46] ha messo in evidenza che “recentemente, la letteratura ha manifestato preoccupazioni sulla corretta valorizzazione, in sede processuale, della cultura del gruppo dell'offender, segnalando, in particolare, i rischi di abuso della cultural defense”. P.e., il testé menzionato Dottrinario reputa che, nel leading-case U.S. vs. Reddy (25 Oct. 2000), la sotto-cultura indiana dell'immigrato nulla aveva a che fare con il delitto commesso dallo straniero. Sempre a  proposito del leading-case Reddy, Renteln (ibidem)[47] ha precisato che “in situazioni del genere [di emarginazione del forestiero non integrato] la causa di certi comportamenti non va ricondotta alla pressione culturale del gruppo etnico di riferimento: le ragioni sono ben altre e sono costituite dalla pressione esistenziale della povertà e della fame.

Si tratta, in altre parole, di tener ben distinte le pratiche culturali dalle pratiche sociali; queste ultime non sono altro che la disgraziata conseguenza della necessità economica. P.e., un tossicodipendente straniero che delinque non pone in essere sempre e comunque un culturally motivated crime. Oppure ancora, un alcolista cronico che vive ai margini della società non commette soltanto crimini motivati dalla propria eventuale appartenenza ad una “minority” etnica. A titolo esemplificativo, in U.S. vs. Reddy (25 Oct. 2000), la Corte ha sentenziato che la riduzione in schiavitù di donne indiane di casta “bassa” non è un fatto culturale scusabile, bensì un violent crime inaccettabile per l'Ordinamento ospitante. Anche altri Dottrinari, sempre nel caso Reddy, hanno puntualizzato che la “cultura indiana” non è una cultural defense invocabile al fine di scriminare la riduzione in schiavitù di donne minorenni per fini prostitutivi. In altre parole, Renteln (ibidem)[48], con attinenza a U.S. vs. Reddy (25 Oct. 2000) precisa che “benché la violazione dei diritti umani delle donne e dei minori siano fenomeni spesso riscontrabili in contesti sociali arretrati, come quello indiano, la loro esistenza riflette circostanze di calamità economica […]. Le pratiche considerate nel caso Reddy – la schiavitù sessuale e lo sfruttamento del lavoro – non sono, invece, da valutare come tradizioni culturali, perché riflettono soltanto la disperazione delle famiglie. In conclusione […] il caso in esame non può essere qualificato come reato culturalmente motivato”. Del pari, Levine (2003)[49] invita alla massima prudenza per evitare un abuso della cultural defense, poiché “le differenze tra le culture in conflitto […] possono non essere nette, bensì graduali”. D'altra parte, un violent crime non sempre è sussumibile entro la excuse del culturally motivated crime. La delinquenza dei non autoctoni non è categoricamente ed apoditticamente cagionata da presunte tensioni etniche con il gruppo di maggioranza. Si consideri pure, come sottolineato da Moran (2007)[50], che la motivazione culturale del reato è tale solamente se “ragionevole”, dunque se è non pretestuoso parlare di cultural defense. Similmente, Renteln (ibidem)[51] osserva che, per invocare la cultural defense, è necessario soddisfare tutti i tre seguenti interrogativi:

 

  1. l'agente è membro di un gruppo etnico [minoritario] ?

 

  1. Il gruppo ha la tradizione a cui si riferisce l'agente ?

 

  1. L'agente è stato influenzato dalla tradizione quando ha agito ?
  2.  

A parere di chi commenta, il quesito maggiormente importante è il n. 3), in tanto in quanto il Magistrato non deve applicare la cultural defense nel caso di un influsso non decisivo della tradizione, soprattutto se il delitto commesso è un violent crime che viola personalissimi e non negoziabili beni. L'excuse del culturally motivated crime è precettiva solo se il condizionamento è stato concretamente ed insuperabilmente decisivo.

 

 

[1]Friedman,  American Law in the Twentieth Century, 2002

 

[2]Glazer, We Are All Multiculturalists Now, 1997

 

[3]Tienda,  Immigration, Opportunity and Social Cohesion, in Smelser & Alexander, Diversity and Its Discontent. Cultural Conflict and Common Ground in Contemporary American Society, 1999

 

[4]Note, The Cultural Defense in the Criminal Law, in Harvard Law Reviev, 1986

 

[5]Note, op. cit.

 

[6]Note, op. cit.

 

[7]Foblets & Renteln,  Multicultural Jurisprudence. Comparative Perspectives on the Cultural Defense, 2009

 

[8]Renteln, In Defense of Culture in Courtroom, in Shweder & Minow & Markus, Engaging Cultural Differences. The Multicultural Challenge in Liberal Democracies, 2002

 

[9]Goldstein, Cultural Conflicts in Court: Should the American Criminal Justice System Formally Recognize a Cultural Defense ? In Dick. Law Reviev, 1994

 

[10]Renteln, The Cultural Defense, 2004

[11]Renteln, op. cit.

 

[12]Morse, The New Syndrome: Excuses or Justifications, in Criminal Justice Ethics, Vol. 14, n. 1, 1995

 

[13]Turk, Abuses and Syndromes: Excuses or Justifications, in Whittier l. Review, 1997

 

[14]Renteln, Raising Cultural Defense, in Ramirez, Cultural Issues in Criminal Defense, 2007

 

[15]Kadish, Fifty Years of Criminal Law: An Opinionated Review, in Cal. L. Review, 1999

 

[16]Wilson, Journal Moral Judgement. Does the Abuse Excuse Threaten Our Legal System ? 1997

 

[17]Mead, La psicologia della giustizia punitiva, traduzione italiana in Santoro, Carcere e società liberale, 1997

 

[18]Garland, Pena e società moderna, traduzione italiana, 1999

 

[19]Mead, op. cit.

 

[20]Dressler, Reflections on Excusing Wrongdoers: Moral Theory, New Excuses and the Model Penal Code, Rutgers Legal Journal, 1988

 

[21]Dressler, op. cit.

 

[22]Fletcher, Rethinking Criminal Law, 1978

 

[23]Dressler, op. cit.

 

[24]Dressler, op. cit.

 

[25]Dressler, op. cit.

 

[26]Dressler, op. cit.

 

[27]Dressler, op. cit.

 

[28]Dershowitz, The Abuse Excuse, 1994

 

[29]Dershowitz, op. cit.

 

[30]Dershowitz, op. cit.

 

[31]Falk, Novel Theories of Criminal Defense Based upon the Toxicity of the Social Envinronment: Urban Psychosis, Television Intoxication, and Black Rage, in North Carolina Legal Review, 1996

 

[32]Marinucci, Cause di giustificazione, in Marinucci & Dolcini, Studi di diritto penale, 1991

 

[33]Note, op. cit.

 

[34]Renteln, op. cit.

 

[35]Note, op. cit.

 

[36]Note, op. cit.

 

[37]Renteln, op. cit.

 

[38]Note, op. cit.

 

[39]Li, The Nature of the Offence: An Ignored Factor in Determining the Application of the Cultural Defense, in U. Haw. L. Rev., 1996

 

[40]Li, op. cit.

 

[41]Guerra & Knox, Violence, in Encycl. Crim. & Just., 2nd edition, Vol. 4, 2002

 

[42]Note, op. cit.

 

[43]Li, op. cit.

 

[44]Renteln, op. cit.

 

[45]Renteln, op. cit.

 

[46]Renteln, op. cit.

 

[47]Renteln, op. cit.

e

[48]Renteln, op. cit.

 

[49]Levine, Negotiating the Boundaries of Crime and Culture: a Sociolegal Perspective on Cultural Defense Strategies, in Law and Social Inquiry, 2003

 

[50]Moran, The Reasonable Person and the Discrimination Inquiry, in Tierney, Accomodating Cultural Diversity, 2007

 

[51]Renteln, op. cit.