Ciò che rimane

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Ciò che rimane

 

In Esercizi bizzarri per arrivare vivi alla morte abbiamo riflettuto su come il rifiuto dell'idea della nostra morte possa produrre distorsioni poco utili alla vita. Vediamo ora un altro potenziale effetto di questa illusione, questa volta non su di noi, ma sulle vite che continueranno dopo la fine della nostra.

Andrei alla domanda centrale. Quante relazioni viviamo nella nostra esistenza? In primo luogo ci sono quelle che possiamo abitare solo noi, o pochissimi altri, come essere i compagni di vita di una persona, essere genitori, fratelli o sorelle (per alcuni), o figli (tutti). Ci sono poi anche le relazioni elettive, quelle che ci scegliamo, come le amicizie e, infine, quelle che ci ritroviamo a vivere senza poter più di tanto decidere (ma non senza possibilità di piacevoli sorprese), come i colleghi o i membri delle comunità in cui viviamo.

Ognuna di queste relazioni si fonda su uno scambio di risorse (emotive, sentimentali, simboliche, materiali, economiche ecc.) ma non è detto che i piatti della bilancia siano sempre in equilibrio tra i partecipanti alla relazione. La geometria di questi scambi è infatti ad assetto variabile. Ad esempio, se nei primi anni di vita è accettato che si estraggono più risorse di quante se ne immettano, più si cresce e più si hanno strumenti per contribuire a relazioni equilibrate. Addirittura in alcuni casi la dinamica infantile può invertirsi per finire che si donano più risorse di quelle che si utilizzano (quella roba che fanno i veri maestri, per intenderci).

In linea con le domande del contributo precedente, possiamo chiederci: se dovessimo morire domani, cosa lasceremmo? Non parlo in termini di sostanze materiali ma della traccia nella vita delle persone con le quali abbiamo camminato. Il saldo tra risorse immesse ed estratte sarebbe positivo o negativo? 

Proviamo a redigere un inventario: lasceremmo, nelle relazioni di cui si parlava in apertura, un bel nulla, una flebile scia che resisterà solo per poco, o un solco entro i cui versanti qualcuno potrà trovare ancora direzione e protezione?

Stiamo evidentemente parlando della nostra eredità che, se si vuole davvero lasciare, deve essere preparata per tempo, in vita. E per prepararla serve avere ben presente la propria finitudine. Infatti, chi non muore non può lasciare eredità. Chi conduce una vita settata sul rifiuto del pensiero della propria morte difficilmente si porrà il problema del dopo di sé.

Però bisogna raffinare l'esercizio. Chiedersi quale possa essere domani la nostra eredità potrebbe non essere di facile risposta. Alcune risposte, infatti, sono ahimè disponibili solo a consuntivo.

Possiamo però domandarci se viviamo in modo da massimizzare la generazione di cose buone. Ancora una volta, quindi, la domanda riguarda la nostra vita di adesso. Il nostro divorare ogni possibilità che abbiamo davanti comporta una scia di sporcizia che altri dovranno pulire? Chi cammina con noi può al massimo ambire a spigolare gli avanzi del nostro pasto e solo perché abbiamo raggiunto la capienza massima di stomaco e tasche?

Insomma: stiamo più generando o consumando? 

Ecco quindi che solo un pensiero maturo sulla morte può innescare il cruccio dell'eredità e questo abilita a vivere più aperti e fecondi, quindi generativi e felici (ricordate? Da felix).

E si badi bene, il discorso sull'eredità non è solo è solo relativo alla morte biologica, ma riguarda tutte le altre piccole morti che attraversano la nostra esistenza, come gli strappi di relazioni che un cambio di lavoro, un trasferimento, un trasloco in un'altra città, una rivoluzione di vita, un pensionamento o una qualsiasi conclusione di esperienza possono comportare. Verrà a mancare una quotidianità, una prossimità che volenti o nolenti produce intimità, ma se abbiamo lasciato un gruzzoletto di bene qualcuno potrà raccoglierlo con l'opportunità di conservarlo, tramandarlo o magari farlo crescere ancora di più. 

Ma c'è una condizione affinché il nostro lascito dispieghi un potenziale liberante per tutti. L'eredità non deve essere eccessivamente trattenuta. Infatti, se le indicazioni di utilizzo a fin di bene di quanto affidato ad altri rientrano nelle raccomandazioni imposte da saggezza, bisogna rimanere consapevoli del rischio del seminatore: per quanto amore si possa mettere nella preparazione del terreno e nella semina, sono troppe le variabili fuori controllo che possono interferire con la buona aspettativa iniziale. Questa consapevolezza libera chi dà, ma anche chi riceve e solo da questa libertà può svilupparsi l'idea originale che farà fruttare al meglio quanto ricevuto, dando alla vita la possibilità di rigenerarsi (e non già, come spesso vorrebbe chi lascia, di replicarsi). 

Dicevamo che bisogna prepararla, costruirla questa eredità ma per farlo il pensiero della nostra morte deve trovare un po' di spazio. Cosa non certo facile visto che tutto congiura per ridurre al lumicino gli spazi di riflessione profonda. Pensiamo solo a quanto sia organizzata e capillare l'industria dell'intrattenimento, la cui missione sembra essere oggi più che mai quella di riempire di contenuti brevi e appaganti il nostro già scarso tempo libero, che finisce per essere ammazzato e non dissodato, coltivato, fatto vivere e fiorire. Anestetici che, lungi dal farci almeno riposare, inducono un coma iperattivo che fa dimenticare persone, relazioni, cura, accompagnamento. 

Non sto dicendo che prendere altre direzioni, la diversione (divergere, da cui deriva divertimento) sia un male. Tutt'altro: questo è sovente l'inizio del processo di conoscenza. Ma ad un certo punto l'esplorazione di superficie deve trovare un approdo su cui, con i piedi piantati bene a terra, iniziare una trivellazione per andare al nucleo delle cose. E allora le riflessioni sulla morte diventano quasi fatalmente inevitabili.

Qualche sera potrebbe allora essere utile leggere una bellissima storia, che vi consiglio e che tutti avete in casa: quella della vostra vita. Antico esercizio di ricalibrazione tra il desiderato, il vissuto e qualche punto fisso della propria esistenza (morale, etica, legge, necessità, principi religiosi ecc.) che la tradizione ci ha consegnato nella forma di un esame di coscienza. Questo potrebbe essere un primo allenamento per capire se stiamo lavorando a qualcosa di buono, e dunque stiamo preparando una buona eredità. 

Concludendo la mia sfilza di banalità quotidiane. La vita si riproduce in presenza di un desiderio di generazione che sfocia in un atto creativo, che può consistere tanto nel provare a mettere al mondo qualcosa di buono, quanto nel prendersi cura di questo, o di qualcos’altro che non abbiamo generato ma che ci siamo trovati davanti. E questa cura altro non è che il modo con cui onorare quel felice debito con cui nasciamo, ovvero il servizio alla nostra specie, che, nell'uomo più che altrove, non si esaurisce nel solo imperativo biologico.

Il rischio dunque di pensare alla morte solo quando questa è realmente vicina, quando forze e salute declinano, è quello di assistere con senso di impotenza alla propria fine, guardando con indifferenza (se non con ostilità) l'arrivo delle nuove generazioni alle quali però, per piccata rimostranza, non si intende lasciare nulla.

Ci si domanda spesso dove siano finiti i maestri. Non lo so. Credo però che abbiano cominciato a diminuire da quando la cura del futuro nascente ha iniziato ad essere percepita, da chi è sulla via del tramonto, non come occasione di vita ma come una mutilazione.