Decreto carceri: mancanza di una visione prospettica

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Decreto carceri: mancanza di una visione prospettica

 

Il sistema penitenziario italiano è da tempo al centro di riforme e dibattiti, spinti dall’esigenza di affrontare annosi problemi come il sovraffollamento delle carceri e le condizioni sanitarie dei detenuti. Il recente Decreto Carceri (D.l. n.92 del 4 luglio 2024, conv. l. n. 112 dell’ 8 agosto 2024), noto anche come “Carcere sicuro”, annunciava propositi di rispondere  alla necessità di un sistema più efficiente e rispettoso dei diritti umani.

Due cardini del decreto che avrebbero dovuto, a detta del ministro nel giro di tre mesi, liberare  la morsa del sovraffollamento si stanno rivelando inutili ed inefficaci al fine 

La liberazione anticipata (misura  già esistente – art. 54 O.P.- che consente ai detenuti di ridurre la propria pena in base alla buona condotta) è stata modificata (con intento di semplificare il procedimento) passando da un sistema di richiesta (petitorio) ad un sistema di concessione diretta da parte del Magistrato di Sorveglianza. In sostanza mentre prima il singolo detenuto ogni semestre di pena scontata presentava la richiesta al MdS  che valutava di volta in volta, la nuova norma (che modifica le procedura di concessione modificando l’art. 69 bis O.P.) prevede che non sia più il detenuto a richiedere la L.A. ma bensì direttamente il magistrato a concederla per i semestri maturati, ogni qual volta maturino i termini per la concessione di un beneficio (Permessi premio) o una misura alternativa ( Semilibertà – Affidamento – Condizionale). Si comprenderà che è stato capovolto il presupposto: da un sistema ad Istanza si passa ad un sistema di mera concessione dall’alto (quando e come dispone il Magistrato).  Il problema che emerge in questi primi mesi di applicazione è che il Magistrato non sa quando maturano i termini, atteso che la Liberazione Anticipata viene ancorata al maturare del termine per la richiesta delle misure alternative (Permessi – affidamento Semilibertà – Condizionale)  termini che mai coincidono con i termini teorici esposti nell’Ordinamento, evidenzia come i tempi della concessione della Liberazione Anticipata risultano del tutto fuori controllo con conseguente ritardo nell’accesso alle misure alternative se si considera che la L.A. concorre con la detenzione effettiva a computare i termini per l’accesso alle misure stesse.

In sostanza già in questi mesi regna il disordine: non si sa chi calcola i termini (semestri) di L.A., non vengono liberati prima dell’esame delle Istanze della misure alternative e i detenuti iniziano a inondare i Tribunali di Sorveglianza di istanze inammissibili e di solleciti.

Nella giustizia dei sogni del Ministro Nordio tutto dovrebbe essere automatico, ma il ministro sembra non avere contezza di come funzionano gli uffici di Sorveglianza, di quanto caos regni in assenza di personale e di strumenti adeguati a mettere in atto automatismi.

Forse solo con la adozione del Processo telematico anche per l’esecuzione penale e la Sorveglianza si potrebbe in un tempo ragionevole ottenere gli automatismi necessari, ma allo stato, la cenerentola dei tribunali (la Sorveglianza) procede ancora a mano con i fascicoli cartacei.

I roboanti proclami del Ministro secondo il quale già a fine settembre si sarebbero dovuti vedere i primi effetti della riforma sono, non solo disattesi ma assolutamente delusi e frustrati, con l’aggravante di rendere maggiore il carico di lavoro sui Magistrati e sulle cancellerie della Sorveglianza ora occupati anche a far di conto.

Il secondo caposaldo del Decreto che avrebbe dovuto garantire il rapido svuotamento delle carceri con il proclama di 15/20 mila detenuti scarcerati entro ottobre, si basava sul più rapido accesso alle misure alternative. Da un lato agevolato dalla più rapida concessione automatica della L.A. (cosa che abbiamo visto non essere), dall’altro l’introduzione delle strutture residenziali per l’accoglienza e il reinserimento sociale delle persone detenute apprezzabile appare la soluzione dell’istituzione di un apposito elenco tenuto presso il Ministero della Giustizia  (art. 8, comma 1). Anche in questo caso occorrerà attendere l’adozione di un successivo atto normativo (decreto ministeriale) al quale fa rinvio il comma 2 dell’art. 8 del decreto-legge.

La disposizione fa espresso riferimento all’accoglienza di persone che hanno i requisiti per l’accesso alle misure penali di  comunità, ma «non sono in possesso di un domicilio idoneo e sono in condizioni socio-economiche non sufficienti per  provvedere al proprio sostentamento», opportunamente richiamando l’obiettivo di fornire non soltanto servizi di  assistenza, ma anche di riqualificazione professionale e reinserimento socio-lavorativo. Credo sia fondamentale in sede di  conversione non estendere l’indicato perimetro, al fine di scongiurare il rischio che le predette strutture si trasformino  in veri e propri luoghi di espiazione della pena alternativi al carcere. Un conto è l’intervento sussidiario del privato  sociale, pienamente conforme, tra l’altro, alla specifica previsione contenuta nell’ultimo comma dell’art. 118 Cost., altro  conto sarebbe ipotizzare un intervento sostituivo, a maglie larghe, che potrebbe determinare una sorta di privatizzazione  dell’esecuzione penale, senz’altro contraria all’esigenza costituzionale di assicurare la natura pubblica della gestione  dell’amministrazione della giustizia, che deve comprendere anche la fase applicativa della pena. La perimetrazione  prevista scongiura questo rischio, ma lascia aperto l’interrogativo circa la reale incidenza della previsione in termini  deflattivi. Sarebbe utile, allora, compiere un’attenta analisi di impatto della misura legislativa che consenta di avere una  stima ragionevole del suo possibile effetto in termini numerici anche per valutare un possibile eventuale allargamento delle maglie  della liberazione anticipata.

Il Decreto su questo versante appare improvvisato, assente di prospettivi e di finalità. Al di la delle enunciazioni, roboanti e pompose, rivela la scarsa conoscenza della materia e della situazione: annunciare l’aumento delle telefonate da quattro a cinque mensili quale strumento di contrasto ai suicidi significa non sapere che tutto ciò esiste già nella disponibilità dei Direttori degli istituti di pena, quindi del tutto inutile , significa far passare come innovazione qualcosa che innovazione non è, significa non capire che il problema è altro … annunciare la semplificazione della concessione del beneficio della liberazione anticipata appesantendo il compito dei Magistrati chiamati ora anche a far di conto e tenere le scadenze di ciascun condannato, significa voler gravare su uffici già ingolfati non in grado di gestire il nuovo incombente. A meno che non vi sia un preordinato intendimento di togliere ai detenuti il diritto di chiedere per lasciare che tutto sia gestito dall’altro anche quando si vuole non gestire e lasciare che le situazioni stiano nell’incertezza, sino al fine pena.

Insomma l’impressione che il Decreto faccia sfoggio dell’ovvio senza voler mettere mano volutamente ai cardini dei problemi, il tutto in nome del mantra di questo governo e dei suo esponenti: la certezza della pena.

La pena, quale che ne sia la forma, deve puntare a ricostruire il legame sociale, partendo dal presupposto che la commissione del reato ne ha determinato la lacerazione. È per questa semplice ragione, avente un ben preciso fondamento costituzionale, che l’opzione repressiva, per quanto sempre presente nelle scelte di politica criminale, non può mai relegare nell’ombra il profilo rieducativo (così Corte cost., sent. n. 257 del 2006), imponendo particolare e costante attenzione nei confronti del singolo condannato, come di nuovo richiede l’art. 27, terzo comma, della Costituzione, questa  volta declinando il termine al singolare.

La finalità rieducativa – e il principio di umanizzazione che in un certo senso ne costituisce il presupposto – caratterizza ontologicamente la pena, dalla sua astratta previsione sino alla sua concreta esecuzione (Corte cost., sent. n. 313 del 1990), facendo scaturire precisi doveri non soltanto in capo alle autorità penitenziarie e ai giudici (dell’esecuzione, di sorveglianza e persino di cognizione), ma anche sullo stesso legislatore, il quale dovrebbe, tra l’altro, sempre valutare il possibile impatto delle sue scelte rispetto al perseguimento degli indicati obiettivi costituzionali. Questo è l’esito di una progressiva acquisizione di consapevolezza, che ha portato di recente la nostra Corte costituzionale ad affermare «che la personalità del condannato non resta segnata in maniera irrimediabile dal reato commesso in passato, foss’anche il più orribile; ma continua ad essere aperta alla prospettiva di un possibile  cambiamento». Con l’importante precisazione per cui tale prospettiva non soltanto «chiama in causa la responsabilità  individuale del condannato nell’intraprendere un cammino di revisione critica del proprio passato e di ricostruzione della  propria personalità», ma impone una «correlativa responsabilità della società nello stimolare il condannato ad  intraprendere tale cammino, anche attraverso la previsione da parte del legislatore – e la concreta concessione da parte del giudice – di benefici che gradualmente e prudentemente attenuino, in risposta al percorso di cambiamento già avviato,  il giusto rigore della sanzione inflitta per il reato commesso, favorendo il progressivo reinserimento del condannato nella  società» (sent. n. 149 del 2018)