x

x

Diritto Penale e gruppi socialmente deboli

Paesaggio rurale
Paesaggio rurale

Diritto Penale e gruppi socialmente deboli

 

La Teoria del conflitto tra i gruppi

Il nuovo approccio di Vold, negli Anni Cinquanta del Novecento, ha avuto il merito di analizzare i conflitti culturali spostando l'attenzione dall'individuo uti singulus al gruppo. A tal proposito, Liska (1981)[1] ha evidenziato che “nell'impostazione [di Vold] il conflitto tra i gruppi viene considerato come un fattore essenziale nel processo sociale da cui dipende l'evoluzione della società”. Più nel dettaglio, Vold (1958)[2] asserisce che “la società è costituita da un insieme di gruppi in costante equilibrio dinamico: la natura umana fa sì che le persone si organizzino in gruppi; le vite individuali sono, infatti, il risultato dell'associarsi in gruppo. Più specificamente, i gruppi si formano quando gli individui manifestano interessi e bisogni comuni, che possono essere meglio perseguiti attraverso l'agire collettivo”. In effetti, nella realtà quotidiana, le culture della maggioranza o della minoranza etnica si manifestano quasi sempre in attività associative ove tanto l'autoctono quanto lo straniero non sono monadi leibnitziane isolate ed alienanti. Del pari, Vold & Bernard & Snipes (2002)[3] ribadiscono che il protagonista dei cultural conflicts è il gruppo e non il singolo, ovverosia “appena nuovi interessi emergono, nuovi gruppi si costituiscono, mentre i gruppi già esistenti si sfaldano e scompaiono qualora gli obiettivi per i quali si sono formati sbiadiscono. Questi gruppi, sotto la direzione ed il coordinamento dei loro membri, entrano in conflitto tra di loro quando gli interessi di cui sono portatori si sovrappongono o si scontrano con quelli di altri gruppi. L'individuo, allora, agisce per realizzare i valori del gruppo a cui appartiene, e nel momento in cui il conflitto si realizza, il sentimento di lealtà del singolo verso il gruppo tende a divenire più solido ed intenso”.

Come si può notare, Vold & Bernard & Snipes (ibidem)[4] negano l'immagine dell'immigrato “giustiziere solitario” che rende giustizia alla propria minoranza di riferimento, giacché qualsivoglia rivendicazione etnico-culturale è sempre perseguita dal gruppo e nel gruppo. Il cultural conflict reca un'irrinunciabile dimensione collettiva, dunque sovra-individuale. P.e., Vold ed i suoi seguaci sottolineano che la maggioranza etnica, all'interno di quel gruppo particolare definito “parlamento”, decide che delinque e chi no attraverso la produzione legittima del Diritto Penale; è il raggruppamento politico e non l'individuo a costituire una/la fonte di produzione della Giuspenalistica. In effetti, Vold (ibidem)[5] precisa che “il comportamento criminale non è altro che il comportamento dei minority power groups, ossia dei gruppi che non hanno potere sufficiente per promuovere e difendere i loro interessi ed i loro obiettivi nella politica legislativa: sono questi i gruppi che, nel conflitto sociale, non sono riusciti ad affermarsi e a trasformare i loro valori in legge”. P.e., in tempo di guerra, gli obiettori di coscienza costituiscono minority power gruops oggetto di sanzioni penali auto-percepite dalla minoranza alla stregua di una giuridificazione dittatoriale imposta dai gruppi maggioritari. Sempre Vold (ibidem)[6], in tema di lotta armata di resistenza, sostiene che “può accadere che gli individui arrivino a violare la legge. Reati come il furto, l'omicidio o il sabotaggio possono essere commessi, talvolta, in nome della rivoluzione: se la rivoluzione perde, i rivoluzionari saranno trattati da criminali; se vince, diventeranno degli eroi ed i componenti del gruppo che prima deteneva il potere saranno considerati dei delinquenti”.

Gli asserti or ora esposti si attagliano pure alla fattispecie del terrorismo italiano degli Anni Sessanta e Settanta del Novecento, pur se rimane necessario delineare criteri tecnici al fine di distinguere tra gruppi partigiani legittimi e minoranze stragiste prive di qualunque liceità. Anzi, a parere di chi redige, Vold (ibidem)[7] non è per nulla condivisibile allorquando nota che talune volte la lotta armata “era l'unica via che potesse consentire l'affermazione dei diritti umani”. D'altronde, per esempio, la Giurisprudenza federale svizzera abbonda di BGE che sovente negano a molti gruppi rivoluzionari la qualifica di legittime formazioni partigiane. In effetti, alcuni anni dopo la prima Opera di Vold, i medesimi Vold & Bernard & Snipes (ibidem)[8] si aprono all'autocritica e riconoscono che “la group conflict theory non spiega molti comportamenti criminali irrazionali ed impulsivi, riconducibili esclusivamente all'individuo e non incasellabili nello stereotipo dell'agire di gruppo”. Come si vede, Vold & Bernard & Snipes (ibidem)[9] legittimano l'eterolesività solamente in circostanze rare e mai quando la violenza sfocia nella vendetta privata o nel terrorismo.

 

La Teoria del conflitto tra authorities e subjects

Nel 1969, Turk ha pubblicato, sul tema del cultural conflict, la celebre Opera “Criminality and Legal Order”. A sua volta, Turk (1969)[10] è stato influenzato da Dahrendorf (1959)[11], il quale insisteva sulla netta “divisione tra coloro che hanno l'autorità di controllare i comportamenti nelle strutture istituzionali e quelli che non ce l'hanno”. In buona sostanza, come notato da Liska (ibidem)[12], l'intera produzione dottrinaria di Turk istituisce una profonda dicotomia socio-giuridica tra “autorità e subordinati”. Da subito, Turk (ibidem)[13] si pone due interrogativi di fondo: “1, A quali condizioni le differenze tra autorità (authorities) e subordinati (subjects) hanno la probabilità di trasformarsi in conflitto ? 2, A quali condizioni i comportamenti di coloro che violano la legge sono criminalizzati ?”. In primo luogo, il cultural conflict, secondo Turk, non è mai scatenato da semplici questioni bagatellari, bensì da conflitti gravi e decisivi. Ovverosia, Turk (ibidem)[14] mette in risalto che “il conflitto tra autorità e subordinati esplode quando le differenze di comportamento tra i primi ed i secondi trovano conferma nelle diversità culturali […] [Ma] se le differenze di valore o di cultura tra authorities e subjects non si ritrovano anche nei comportamenti dei due gruppi o se sono di minima rilevanza, il conflitto non si verificherà o, comunque, sarà di minore entità”.

Dunque, nelle fattispecie meno gravi, Turk (ibidem)[15] e Liska (ibidem)[16] postulano la fattibilità e, anzi, la prevalenza del dialogo inter-etnico. In secondo luogo, la minoranza attiva inizia un vero e proprio “conflitto” solamente se essa è ben strutturata, solida ed organizzata. A tal proposito, Turk (ibidem)[17] rimarca che “il conflitto è tanto più probabile quanto più sono organizzati coloro i quali hanno una connotazione illegale o intraprendono un comportamento illegale […]. Mentre si presume che il gruppo che detiene l'autorità sia organizzato, dal momento che l'organizzazione è un presupposto indispensabile per acquisire e mantenere il potere, maggiore è l'organizzazione dei subjects, maggiore sarà la forza con cui essi potranno tollerare lo scontro con l'autorità”. A parere di chi scrive, la ratio della “organizzazione” è pure sinonimo di struttura organizzata in maniera professionale, ovverosia imprenditoriale. Condurre e gestire la minoranza come se si trattasse di un'impresa commerciale è imprescindibile all'interno delle dinamiche delle cc.dd. “rivendicazioni culturali” delle minoranze.

In terzo luogo, secondo Turk (ibidem)[18], decisiva è pure la “sophistication” dei sottoposti, in tanto in quanto “il conflitto è più probabile quanto meno sofisticati sono i subordinati […] [Tale sophistication] è la conoscenza di elementi del carattere e dei comportamenti dei membri dell'altro gruppo. Essa viene utilizzata per manipolarli. Più sofisticati saranno i subjects, meglio saranno in grado di conseguire i loro scopi, senza che sia necessario scontrarsi apertamente con il gruppo di potere”. P.e., a parere di chi commenta, la legalizzazione della marjuana, nell'Ordinamento italiano, ha raggiunto livelli elevati di “sophistication”, sicché il mondo radical chic sta evitando conflitti culturali abnormi ed autolesionistici. In quarto luogo, Turk (ibidem)[19] mette in risalto che la maggioranza, dunque le authorities, prevalgono più facilmente sui subordinati se vi è l'appoggio della Magistratura e della PG, le quali possono “criminalizzare” i subjects sino ad annientarli nel nome dell'Ordine costituito. In maniera maggiormente scontata, Turk (ibidem)[20] precisa pure che “minore è il potere dei subordinati, maggiore sarà l'applicazione della legge […] La criminalizzazione è maggiore quando il gruppo delle authorities ha un potere forte ed i subjects non ne hanno”. Nuovamente, pertanto, torna la ratio della tendenza all'autoconservazione del potere da parte dell'Autorità costituita.

Del resto, è più che evidente che l'Ordinamento giuridico delle authorities preserva il proprio potere chiudendo le porte a minoranze etniche o, più semplicemente, culturali munite di un potenziale effetto destabilizzante. Il Diritto, specialmente quello penale, si pone sempre in una posizione di autodifesa che riduce al minimo eventuali novellazioni normative nel breve o medio periodo; da cui discende l'enorme difficoltà dei subjects a recare innanzi le loro rivendicazioni minoritarie autonomiste. Infine, Turk (ibidem)[21] chiosa la propria Teoria delle authorities vs. subjects notando che “più basso è il livello di realismo dei soggetti che violano la legge, più aumenta la probabilità di applicazione della legge […]. Questo fattore è [definibile come] la capacità di comprendere le mosse dell'avversario (realism of conflict moves) [e] costituisce un aspetto ulteriore della sophistication, che completa e [che] riguarda le probabilità di successo delle azioni intraprese dall'autorità o da coloro che violano la legge […]. Mosse irrealistiche, effettuate da entrambi gli attori del conflitto, tendono ad aumentare la criminalizzazione, che è una misura del conflitto aperto tra i gruppi”. Come si nota, Turk (ibidem)[22] reputa che i subjects sono più facilmente vincenti nella misura in cui conducono la loro lotta contro le authorities in maniera silente, sotterranea, “smart”, in modo da evitare la criminalizzazione e, dunque, l'evidente infrazione del Diritto Penale. Ancora una volta, chi commenta propone l'esempio italico del movimento per la legalizzazione della cannabis, la cui liceità sta per essere ottenuta dai subjects modificando l'Ordinamento dall'interno, senza scoprire appieno, innanzi alle authorities ed all'opinione pubblica, la drastica antisocialità del fine perseguito. La “sophistication” consente ai subjects di cambiare la Giuspenalistica con strumenti legali o semilegali che permettono di evitare una criminalizzazione aperta e socialmente destabilizzante. I “subordinati” conseguono le maggiori vittorie nascondendosi dai clamori chiassosi dei mezzi di comunicazione, in tanto in quanto una Legislazione silentemente mutata “dall'interno” non reca al trauma sociale dell'aperta antigiuridicità

 

Cultura e (dunque) reato culturalmente motivato

Come notano gli anglofoni Hendricks & Nickoli (2000)[23], “la parola cultura è da tempo entrata nel linguaggio di tutti i giorni: utilizzata sia dalla gente comune sia dagli specialisti; essa è però un concetto molto complesso da definire […] [perché] esistono centinaia di definizioni di cultura”. Probabilmente, la qualificazione migliore rimane, ancora dopo una trentina d'anni, quella di Tylor (1988)[24], ovverosia “cultura è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il Diritto, il costume e qualsiasi altra capacità ed abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società”. Anche negli Anni Duemila, Fikentscher (2004)[25] ha affermato che la definizione di Tylor (ibidem)[26] costituisce una “base di partenza fondamentale” per l'intera Antropologia culturale contemporanea. A sua volta, il lemma “cultura” reca una dimensione collettiva e mai individualistica; ovverosia, come evidenziato dall'italiofono Fabietti (2005)[27], “[la definizione di Tylor] fa intravedere una serie di conseguenze significative: la prima è che la cultura è qualcosa che l'individuo acquisisce in quanto membro di una società; la seconda è che esistono tante culture quante sono le società umane [e quindi] tutte le culture hanno dignità culturale”.

Dunque, Fabietti (ibidem)[28] nega qualsivoglia dignità a quelle forme di cultura dittatoriali prodotte da certuni regimi militarizzati che ignorano la base popolare e profondamente democratica della cultura vera e spontaneamente libera di evolversi. Di più, il medesimo Fabietti (ibidem)[29] ribadisce che le culture sono “insiemi complessi” non calati dall'alto, bensì frutto di un'elaborazione incessante di matrice nazional-popolare. Il pensiero di chi redige corre a quegli Ordinamenti totalitari che impongono manifestazioni culturali non spontaneamente generate nella/dalla reale vita del popolo. P.e., nel Novecento, il fascismo aveva recato ad una “bolla culturale” élitaria ed antidemocratica conclusasi nel peggiore dei modi. Analoga osservazione vale pure per la dittatura rumena di Ceausescu e per quella contemporanea della famiglia Kim nella Corea del Nord. D'altronde, anche Savigny sosteneva che la vera cultura nasce dal “Volksgeist” e questo “spirito popolare” non tollera interventi autoritari che tolgono spontaneità all'evoluzione ordinaria della “coscienza collettiva”. In effetti, seppur implicitamente, pure Tylor (ibidem)[30] postula una genesi della cultura sempre in atto e conforme ad una imprevedibilità genuina che non tollera, nel lungo periodo, forzature intellettuali esterne, artificiose e prepotentemente personalistiche o riservate a gruppi chiusi. Del resto, anche Sunder (2001)[31] percepisce come un problema grave una cultura prodotta da una società innaturalmente “statica”. Parimenti, Becker (1950)[32] non condivide la qualificazione della cultura come “un'entità statica, costante, immutabile”. Pure Devlin (1965)[33] reputa assurdo concepire le culture alla stregua di “un insieme di credenze che viene imposto sugli individui generazione dopo generazione”.

Similmente, Sewell (1999)[34] contesta l'idea della staticità, secondo cui “ogni cultura è come una scatola chiusa, sigillata”. In buona sostanza, Sunder (ibidem)[35] nota che “[questa] nozione fissa di cultura [oggi] mostra seri segni di corrosione […]. Gli esponenti della corrente postmodernista attaccano la staticità [di talune] concezioni tyloriane [poiché] i gruppi culturali sono, di fatto, al loro interno, molto più variegati di quanto la teoria [della staticità] li dipinga ed entrano in dialogo con le altre culture molto di più di quanto possa far credere la concezione statica”.La visione “dinamica” e nazional-popolare della cultura è stata magistralmente sintetizzata dal postmodernista Geertz (1998)[36], a parere del quale “la cultura non è qualcosa di confinato nella testa delle persone, ma è racchiusa nei simboli pubblici: i simboli attraverso i quali i membri di una società esprimono la loro visione del mondo, i loro valori, il loro ethos e lo comunicano alle future generazioni […] [Ma] è necessario sfondare la bolla di staticità e di limitatezza che caratterizza la nozione classica”.

In un altro passo della sua Opera principale, Geertz (ibidem)[37] asserisce che “bisogna sottolineare il carattere dinamico e non chiuso della cultura”. Anche a parere di chi scrive, l'influsso dei mass media sulle nozioni culturali dimostra che è artificioso e profondamente irrealistico postulare l'esistenza di culture, quindi di società, non spontaneamente aperte al cambiamento. Pensare ad un tessuto socio-culturale chiuso, statico ed immutabile significa legittimare, come pocanzi asserito, l'esistenza di prigioni culturali a cielo aperto quali Cuba o la Corea socialista. E' contro natura impedire contaminazioni tra le varie culture e, per conseguenza, tra i vari popoli. A tal proposito, giustamente, Fabietti (ibidem)[38] mette in evidenza che “le culture non sono quei frutti puri, intatti ed intangibili che noi pensiamo: sono, invece, dei sistemi aperti e suscettibili di contaminazione da parte delle altre culture”. Fabietti (ibidem)[39] non erra nel sottolineare la sussistenza di continue, spontanee ed inevitabili interpolazioni tra le società, il che è vero soprattutto dentro l'odierno “villaggio globale” creato dalla rete web. Eguale è la posizione dottrinaria di Post (2003)[40], secondo il quale “la dinamicità e l'evoluzione continua sono i requisiti fondamentali della cultura […]. Gli elementi di comprensione di una cultura […] cambiano in continuazione, nonostante il fatto che, per funzionare, una cultura necessiti di avere prospettive relativamente stabili e condivise”. Pure Wagner (1992)[41] precisa che “bisogna uscire dalla staticità e dall'invariabilità del modello tradizionale e bisogna assegnare alla cultura i caratteri di negoziabilità, interazione e dinamicità”.

 

La teoria di Taylor

Il canadese Taylor fa parte della corrente di pensiero del c.d. “multiculturalismo di matrice comunitaria”. Negli Anni Novanta del Novecento e nei primi Anni Duemila, il summenzionato Dottrinario ha scritto sul tema della “rivendicazione dell'autenticità” e della “politica del riconoscimento”. Taylor (2003)[42] si ricollega esplicitamente a Kant e Rousseau, che “considerano l'uomo come agente razionale, il quale, proprio perché tale, è sempre suscettibile della stessa considerazione e di automiglioramento. Ma, mentre Kant parla di dignità individuale in contrapposizione all'ideologia di onore gerarchico tipica dell'ancien régime. Rousseau insiste, invece, sull'identità individuale, in consonanza all'idea di razionalità universale. Dopodiché, Taylor (1994)[43] dichiara che dalla “identità” nasce la ratio della “autenticità”, che consiste nel “modo personale di essere, di vivere e di concepire la vita”.

In Taylor (2003)[44], così come in Herder, il lemma “autenticità” è basilare, in tanto in quanto “bisogna riflettere sulla propria identità e cercare di definirla, [ma] svincolandosi dalle limitazioni imposte dalla necessità di conformarsi ad un sistema esterno di valori e gerarchie”. Pertanto, Taylor (2003)[45] mette in risalto l'unicità della personalità individuale a prescindere dal gruppo sociale o etnico di provenienza. Analogo soggettivismo indipendentista, in Taylor (2003)[46], è espresso pure con afferenza al lemma “identità”, che, per tale Autore, “non è qualcosa di derivato socialmente […] [e] stabilito dalle posizioni e dalle funzioni svolte nella società; [l'identità] è, invece, qualcosa che si genera interiormente e che deriva da un delicato processo di autoanalisi e di autointerpretazione”. Quindi, come nota Torbisco Casals (2006)[47], Taylor ipostatizza l'unicità individuale del consociato rispetto a tutti i condizionamenti esercitati dal gruppo etnico/sociale/culturale di appartenenza. L'individuo, benché etnicamente/socialmente/culturalmente condizionato, mantiene una propria, sacra ed inviolabile autonomia “autentica”. Tuttavia, Taylor (1994[48];2006[49]) non nega un inevitabile e, anzi, costruttivo dialogo con il gruppo di appartenenza o con il gruppo antagonista. Infatti, Taylor (2006)[50] nega il solipsismo esasperato precisando che “la complessa costruzione [di un sé autonomo] non può avvenire stando isolati: è necessario negoziarla attraverso il dialogo, in parte esterno, in parte interiore, con le altre persone. Ecco l'importanza del riconoscimento. La mia identità dipende in modo cruciale dalle mie relazioni dialogiche con gli altri […]. Ognuno dev'essere riconosciuto nella propria identità, che è unica ed irripetibile”. Pertanto, nelle Opere di Taylor, sussiste la ricerca di un equilibrio costante tra l'individualità e la collettività. L'”io” si deve aprire al “tu”, ma senza abdicare alla propria unicità e dignità. Secondo Taylor (2003)[51], dopo la rivoluzione francese, la formazione di un'individualità collettivamente riconosciuta è divenuta estremamente difficile. Tale Dottrinario reputa che, nelle società rurali del passato, le gerarchie prestabilite, benché troppo rigide, comportavano un riconoscimento “automatico” dell'”io” verso il “tu”.

In epoca attuale, tanto gli individui quanto i gruppi minoritari non possono avere una vita propria. Ciò vale pure nell'incontro/scontro tra maggioranza e minoranze culturali e/o etniche. Non essere pienamente accettati dall'Ordine costituito è un' esperienza alienante e dolorosa. Tanto che Taylor (2003)[52] evidenzia quanto segue: “il mancato riconoscimento dell'identità può essere avvertito come una forma di disprezzo e di oppressione, che costringe l'individuo o il gruppo a vivere in modo riduttivo rispetto alle proprie capacità. Emblematica, in proposito, è la storia americana dei neri, che hanno interiorizzato, per intere generazioni, l'immagine di inferiorità che proveniva dalla razza bianca; molti di loro si sono convinti di essere inferiori […] [Sicché] l'autodisprezzo dei neri diventa uno dei più potenti strumenti della loro oppressione e costituisce l'arma vincente che permette la loro sottomissione alla società degli WASP. Diventa così indispensabile […] affermare la propria dignità come individui e come gruppo”. Ecco, di nuovo, nelle Teorie di Taylor, il dramma della sottomissione delle minoranze etniche alle maggioranze degli autoctoni. Tuttavia, a parere di chi scrive, questo jato, nel lungo periodo, può essere superato da mescolanze con gli immigrati di seconda e terza generazione. P.e., la sopravvenienza di matrimoni misti e la nascita di una figliolanza altrettanto mista facilitano assai il riconoscimento dell'identità dei gruppi minoritari.

Analoga osservazione, a parere di chi commenta, vale pure nell'ambito scolastico, ove gli scolari non autoctoni, almeno tendenzialmente, vengono riconosciuti nella loro identità e, solitamente, sono accettati dai coetanei provenienti dall'etnia della maggioranza dominante. Probabilmente, a Taylor è mancata una prospettiva di lungo periodo, in tanto in quanto le culture tendono ad interpolarsi nel corso dei decenni, giacché le differenze tra gruppi sono un problema di costumanze e non di tare ereditarie. Postulare il contrario significa aprire la strada all'eugenetica di Lombroso e del nazionalsocialismo novecentesco. In effetti, in maniera molto lucida, Taylor (2003)[53] chiosa dichiarandosi favorevole “ad una società che voglia definirsi democratica e che aspiri ad un trattamento egualitario dei suoi componenti”. Chi redige reputa che la Civiltà cristiana costituisca un ottimo deterrente contro il razzismo e per l'affermazione dei diritti fondamentali dell'Uomo. Il Cristianesimo ha sempre agevolato l'inclusione socio-religiosa delle minoranze. Del resto , ad esempio, la CEDU è nata in un contesto vivacemente cristiano.

 

La Teoria del ruolo delle culture sociali

Il multiculturalista Kymlicka (1995)[54], nella sua nota Opera “Multicultural Citizenship” asserisce, nel solco di Taylor, che “la cultura va considerata un bene primario, essenziale per lo sviluppo della libertà individuale”. Sempre secondo Kymlicka (1989)[55], ogni cultura, anche quella dei gruppi e/o delle etnie di minoranza, “conferisce ai propri membri modi di vivere dotati di senso, in un ampio spettro di attività umane, ivi comprese la vita sociale, formativa, religiosa, ricreativa ed economica, nonché la sfera pubblica come quella privata” Di nuovo, nelle Opere di Kymlicka, l'immigrazione è reputata alla stregua di una realtà irreversibile e foriera di contaminazioni intellettuali inevitabili. Anzi, il Kymlicka vi è un profondo legame tra identità culturale e libertà individuale, il che reca all'ineludibile necessità di accettare modelli culturali alternativi, purché non antigiuridici e non eterolesivi. In secondo luogo, Kymlicka postula come oltremodo essenziale il rispetto reciproco tra maggioranze e minoranze etnico-sociali. In buona sostanza, l'Autore qui in parola, più o meno direttamente, estende anche agli immigrati le garanzie enunziate nelle Carte costituzionali del secondo dopoguerra. Ognimmodo, Kymlicka (1995)[56] non esclude l'integrazione piena degli immigrati di seconda o di terza generazione, ma egli afferma che “si tratta di un processo oneroso e doloroso, che comporta costi pesanti, che variano a seconda della graduabilità del processo di integrazione, dell'età dell'individuo, dell'affinità tra le due lingue e dalle similitudini della storia delle due culture”. In effetti, perlomeno nel contesto italiano, un individuo sudamericano reca una maggiore facilità ad integrarsi rispetto ad uno straniero africano o slavo-balcanico.

Parimenti, come evidenziato da Margalit & Raz (1990)[57] l'integrazione dello straniero è sempre e comunque traumatica poiché “i vincoli culturali sono normalmente troppo forti per potervi rinunciare, e di questo fatto non ci si deve lamentare; non si può, perciò, pretendere che una persona faccia il sacrificio di abbandonarli […]. La familiarità con una cultura determina i confini dell'immaginabile […]. Pertanto, se una cultura si sta sgretolando, o diviene oggetto di discriminazioni, le opzioni e le opportunità a disposizione dei suoi membri diminuiranno o diventeranno meno attraenti”. Chi scrive non concorda con Margalit & Raz (ibidem)[58], giacché il bambino precocemente scolarizzato nello Stato ospitante si dimostrerà, almeno prima dell'adolescenza, più disponibile a recepire e fare propria la cultura del gruppo autoctono. Similmente, la giovane donna immigrata di seconda o di terza generazione facilmente tende a costituire legami familiari stabili con uomini appartenenti all'etnia maggioritaria. Del pari, Kymlicka sbaglia nel percepire la cultura delle minoranze come se si trattasse di un dato immutabile. Kymlicka (1995)[59], erra nell'affermare che l'etnia minoritaria sarebbe un “punto stabile d'identità”. Nel lungo periodo, le diversità si appiattiscono, i costumi si omologano e viene spontaneamente cancellata l'identità pregressa, per lasciare il posto ad una mescolanza alternativa e non conflittuale. P.e., tale è stata la situazione della comunità indiana nel Regno Unito, ove l'integrazione della quarta generazione è ormai un dato di fatto. Anzi, le Teorie di Kymlicka, implicitamente, recano ad una visione eugenetica dell'etnia minoritaria. L'essere umano si distingue per motivi esterni; per conseguenza, l'alterità scompare quando l'individuo si adatta alla Weltangschauung dominante. P.e., nel bambino in età scolare, non è sempre vero, per dirla con Kymlicka (1995)[60] che “l'identità culturale costituisce un ancoraggio per l'autoidentificazione […] e contribuisce alla capacità di effettuare scelte individuali dotate di senso”. Tutto ciò non si verifica nell'immigrato in età infantile, positivamente e gioiosamente aperto agli influssi dei coetanei autoctoni. Eguale osservazione vale pure per le donne dell'etnia minoritaria stabilmente legate a maschi provenienti dall'Ordinamento ospitante

Dall'incontro/scontro tra la maggioranza autoctona e la minoranza straniera può nascere un pesante conflitto che tange l'ambito del Diritto Penale, dunque l'ambito della stabilità dell'Ordine pubblico costituito. Ecco, dunque, il sorgere dei reati culturalmente motivati. P.e., si ponga mente alle mutilazioni genitali sulle bambine di famiglia islamica. Altrettanto pertinente è pure l'esempio del matrimonio forzato delle giovani o giovanissime donne mussulmane. Trattasi di infrazioni giuridiche che, nel Paese d'origine dell'immigrato, appartengono alla categoria della perfetta “normalità”. Van Broeck (2001)[61] definisce il reato culturalmente motivato come “un comportamento realizzato da un soggetto appartenente ad un gruppo etnico di minoranza, che è considerato reato dalle norme del sistema della cultura dominante. Lo stesso comportamento, nella cultura del gruppo di appartenenza dell'agente, è, invece, condonato, accettato come normale, o è approvato o, in determinate situazioni, è addirittura imposto”.

 

[1]Liska, Perspective on Deviance, 1981

 

[2]Vold, Theoretical Criminology, 1958

 

[3]Vold & Bernard & Snipes, Theoretical Criminology, 5th edition, 2002

 

[4]Vold & Bernard & Snipes, op. cit.

 

[5]Vold, op. cit.

 

[6]Vold, op. cit.

[7]Vold, op. cit.

 

[8]Vold & Bernard & Snipes, op. cit.

 

[9]Vold & Bernard & Snipes, op. cit.

 

[10]Turk, Criminality and Legal Order, 1969

 

[11]Dahrendorf, Class and Class Conflict in Industrial Society, 1959

 

[12]Liska, op. cit.

 

[13]Turk, op. cit.

 

[14]Turk, op. cit.

 

[15]Turk, op. cit.

 

[16]Liska, op. cit.

 

[17]Turk, op. cit.

 

[18]Turk, op. cit.

 

[19]Turk, op. cit.

 

[20]Turk, op. cit.

 

[21]Turk, op. cit.

 

[22]Turk, op. cit.

[23]Hendricks & Nickoli, Multicultural Issues and Perspectives, in Hendricks & Byers, Multicultural Perspectives in Criminal Justice and Criminology, 2000

 

[24]Tylor, Primitive Culture, in Bohannan Glazer, High Points in Anthropology, 1988

 

[25]Fikentscher, Modes of Thought. A Study in the Anthropology of Law and Religion, 2004

 

[26]Tylor, op. cit.

 

[27]Fabietti, L'identità etnica. Storia e critica di un concetto equivoco, 2005

 

[28]Fabietti, op. cit.

 

[29]Fabietti, op. cit.

 

[30]Tylor, op. cit.

 

[31]Sunder, Cultural Dissent, in Stan. L. review, 2001

 

[32]Becker, Through Values to Social Interpretation, 1950

 

[33]Devlin, The Enforcement of Morals, 1965

 

[34]Sewell, The Concept of Culture, in Bonnel & Hunt, Beyond the Cultural Turn, 1999

 

[35]Sunder, op. cit.

 

[36]Geertz, Interpretazione di culture, traduzione italiana, 1998

 

[37]Geertz, op. cit.

 

[38]Fabietti, op. cit.

 

[39]Fabietti, op. cit.

 

[40]Post, Law and Cultural Conflict, in Chi.-Kent L. Review, 2003

 

[41]Wagner, L'invenzione della cultura, 1992

 

[42]Taylor, La politica del riconoscimento, in Habermas & Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, traduzione italiana, 2003

 

[43]Taylor, The Politics of Recognition, in Gutmann, Multiculturalism: Examining the Politics of Recognition, 1994

 

[44]Taylor, op. cit.

 

[45]Taylor, op. cit.

 

[46]Taylor, op. cit.

 

[47]Torbisco Casals, Group Rights as Human Rights. A Liberal Approach to Multiculturalism, 2006

 

[48]Taylor, op. cit.

 

[49]Taylor, op. cit.

 

[50]Taylor, op. cit.

 

[51]Taylor, op. cit.

 

[52]Taylor, op. cit.

 

[53]Taylor, op. cit.

 

[54]Kymlicka, La cittadinanza multiculturale, traduzione italiana, 1995

 

[55]Kymlicka, Liberalism, Community and Culture, 1989

 

[56]Kymlicka, op. cit.

 

[57]Margalit & Raz, National Self-Determination, in Journal of Phylosophy, 1990

 

[58]Margalit & Raz, op. cit.

 

[59]Kymlicka, op. cit.

 

[60]Kymlicka, op. cit.

 

[61]van Broeck, Cultural Defense and Culturally motivated Crimes (Cultural Offenses), in European Journal of Crime and Criminality, Vol. 9, 2001