La delega dirigenziale nelle organizzazioni pubbliche, gli adulti e gli adultoidi: genesi del progetto AlterEGO

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La delega dirigenziale nelle organizzazioni pubbliche, gli adulti e gli adultoidi: genesi del progetto AlterEGO

 

Qualche tempo fa seguivo una lezione del professor Francesco Muzzarelli, presso il dipartimento di Scienze dell’Educazione del mio Ateneo (Bologna). Ad un certo punto, introdusse un concetto che mi aprì un universo di riflessioni e che non mi ha più abbandonato: “adultoidi”.

Non mi risulta esista nel nostro dizionario ma propongo senz’altro di inserirla, tant’è precisa nello spiegare certi atteggiamenti. Adultoide è quella persona che, pur avendo da un pezzo l’età della ragione, è incapace di assumerne il ruolo e le responsabilità, attuando atteggiamenti adolescenziali e immaturi. Quando scimmiotta i comportamenti di un adulto, lo fa in modo forzato o prematuro, senza capire pienamente le implicazioni.

Vi starete chiedendo cosa c’entra tutto questo con la delega e il progetto AlterEgo...

Per chi non lo sapesse, AlterEgo è un progetto, nato in seno al gruppo nazionale Procedamus (www.procedamus.it), con l’obiettivo di definire i processi di delega e i conseguenti poteri di firma in ambito universitario e negli enti pubblici di ricerca (EPR).  

C’entra eccome! Prima di svelare le conclusioni, però, seguitemi nel percorso.

Che cos’è la delega? In che ambito ne parliamo e perché? Per quale motivo è un tema tanto importante, ma così poco trattato?

Come quasi sempre accade, è utile partire dall’etimologia del termine “delega”: deriva dal latino “de-legare”, “mandare con un incarico”, trasferire ad altri un compito, un potere, un’attività con un mandato, assegnare a terzi atti da adempiere in propria vece o attribuire ad altri l’esercizio della propria autorità, nell’adempimento di una finalità specifica (il mandato o motivo della delega).

In sostanza, con la delega si pone in essere un atto di fiducia con cui un soggetto, dotato di un potere determinato, ne attribuisce l’esercizio ad un’altra persona che lo esercita in sua vece assumendosene la responsabilità. Il delegante, insomma, si fida del delegato che opera in sua vece.

Nelle amministrazioni pubbliche la delega fa riferimento al trasferimento dell’esercizio della competenza. La competenza amministrativa, infatti, è retta dal principio di inderogabilità e legalità: i compiti, le attività, le prerogative di una amministrazione pubblica non sono (ovviamente) liberamente scelte, ma sono definite dal legislatore (come stabilisce l’art. 97 della Costituzione). Il motivo è intuitivo: esse rappresentano uno strumento dello Stato, al servizio del bene comune e dei cittadini, come tali non possono liberamente definire le proprie competenze o attività (come farebbe un soggetto privato). Si tratta di una riserva relativa di legge: la legge, o altro atto avente forza di legge, deve definire i criteri generali che regolano la materia. L’attuazione di questi principi generali, però, può essere disciplinata anche da fonti secondarie (ad esempio i regolamenti di Ateneo). Di regola, pertanto, la ripartizione delle competenze dovrebbe essere definita univocamente da norme di legge o secondarie.

Questa regola generale, però, deve tener conto di aspetti giuridico-organizzativi e di alcuni istituti che possono spostare l’esercizio delle competenze.

In primo luogo, le amministrazioni pubbliche, come tutte le organizzazioni che producono beni o servizi, devono definire i propri assetti interni (chi fa cosa). Lo fanno con regolamenti e atti di organizzazione interna. Ogni organizzazione, intendo, è fatta da unità organizzative differenti, individuate in base a vari criteri di differenziazione, che collaborano per svolgere le attività dell’organizzazione stessa (pensate alle unità organizzative che si occupano di personale, contabilità ICT, logistica, etc.). A loro volta queste unità organizzative hanno una suddivisione interna del lavoro: le aree dirigenziali che si articolano nelle varie unità organizzative di secondo e terzo livello (ad esempio i settori, gli uffici o comunque queste unità organizzative siano chiamate).

Il D.Lgs, 165/2001, all’art. 2 comma 1 stabilisce infatti che “le amministrazioni pubbliche definiscono, secondo principi generali fissati da disposizioni di legge e, sulla base dei medesimi, mediante atti organizzativi secondo i rispettivi ordinamenti, le linee fondamentali di organizzazione degli uffici; individuano gli uffici di maggiore rilevanza e i modi di conferimento della titolarità dei medesimi”.

In sostanza, la legge definisce i criteri generali di organizzazione e le singole PA stabiliscono i criteri di macro-organizzazione (linee fondamentali di organizzazione degli uffici e uffici di maggiore rilevanza), con atti organizzativi secondo i propri ordinamenti. Il dettaglio della ripartizione delle attività (chi fa cosa) e dei relativi atti ad esse legati (ad esempio, quale ufficio segue la selezione del personale, chi ne è responsabile, chi presidia i vari procedimenti, etc) è definito dal dirigente con le capacità e i poteri del privato datore di lavoro. L’art. 5 comma 2 del D.Lgs. 165/2001 recita infatti “le determinazioni per l'organizzazione degli uffici e le misure inerenti alla gestione dei rapporti di lavoro ... sono assunte in via esclusiva dagli organi preposti alla gestione con la capacità e i poteri del privato datore di lavoro”.

Queste disposizioni sono perfettamente coerenti con quelle dell’art 4 comma 2 dello stesso D.Lgs. 165/2001:”ai dirigenti spetta l'adozione degli atti e provvedimenti amministrativi, compresi tutti gli atti che impegnano l'amministrazione verso l'esterno, nonché la gestione finanziaria, tecnica e amministrativa mediante autonomi poteri di spesa di organizzazione delle risorse umane, strumentali e di controllo. Essi sono responsabili in via esclusiva dell'attività amministrativa, della gestione e dei relativi risultati”.

I dirigenti, in sintesi, sono responsabili dei risultati della loro attività gestionale e, di conseguenza, devono poter decidere l’organizzazione delle unità organizzative di cui sono a capo ed emanare gli atti necessari a esercitare le proprie funzioni. Diversamente come potrebbero essere chiamati a rispondere della gestione?

Una prima forma di delega, in senso lato, deriva proprio da queste prerogative del dirigente: questi non esercita direttamente tutte le competenze che gli sono assegnate ma le affida ai propri collaboratori, definendo la struttura organizzativa e “chi fa cosa” (ad esempio articolandola in sotto-unità ciascuna con un proprio responsabile). È un basilare principio di organizzazione del lavoro: in una organizzazione complessa nessuno è in grado di occuparsi direttamente di tutte le attività necessarie a realizzare un bene o un servizio; è necessario specializzare le funzioni (ognuno si occupa di un pezzo del processo) garantendo, altresì il coordinamento: tutti i pezzi, fatti da persone diverse, devono essere ricondotti a fattore comune. Il lavoro, pertanto, viene definito da assetti organizzativi e di responsabilità assegnate a unità organizzative subordinate a quella dirigenziale (la divisione in settori e uffici).

In questo caso parliamo di delega in termini organizzativo-strutturali: di uno strumento di organizzazione del lavoro, volto a garantire la miglior efficienza, efficacia ed economicità dell’azione amministrativa.

Se parliamo di pubblico impiego contrattualizzato, inoltre, il dirigente può demandare ai propri collaboratori anche gli atti giuridicamente privatistici di gestione del rapporto di lavoro, con le stesse prerogative di un datore di lavoro privato.

In sintesi, in questi casi la delega assume la forma e la sostanza di un atto di organizzazione, con cui si effettua il trasferimento delle competenze organizzative o datoriali.

La definizione degli assetti organizzativi ha un’importantissima conseguenza anche per quel che riguarda l’adozione degli atti amministrativi funzionali alle attività di ciascuna unità organizzativa: il responsabile della UOR (unità organizzativa responsabile, a mente della legge 241/1990) è, di regola, il responsabile dei procedimenti amministrativi della UOR medesima e, in quanto tale, adotta tutti gli atti del procedimento, compreso il provvedimento finale quando ne ha il potere. Lo dice molto chiaramente l’art. 5 della legge 241/1990 “Il dirigente di ciascuna unità organizzativa provvede ad assegnare a sé o altro dipendente addetto all'unità la responsabilità dell'istruttoria e di ogni altro adempimento inerente al singolo procedimento nonché, eventualmente, dell'adozione del provvedimento finale. Fino a quando non sia effettuata l'assegnazione di cui al comma 1, è considerato responsabile del singolo procedimento il funzionario preposto alla unità organizzativa determinata a norma del comma 1 dell'articolo 4”.

In sostanza, ogni funzionario, in base al proprio ruolo organizzativo, alle competenze assegnate, ai livelli di autonomia e responsabilità propri della sua “area professionale” (operatore, collaboratore, funzionario, EP), gestisce le competenze attribuitegli e adotta gli atti relativi all’esercizio delle stesse (in qualità di RPA).

Il concetto di atto amministrativo è quello che ci traghetta verso la delega vera e propria.

Vi sono, infatti, diversi atti prerogativa dei dirigenti: in generale, tutti i provvedimenti (cioè, quegli atti pubblicistici che concludono il procedimento amministrativo, ove la PA agisce come autorità e che si estrinsecano in una manifestazione di volontà che incide nella sfera giuridica del destinatario) che riguardano la gestione finanziaria o hanno rilevanza esterna e richiedono discrezionalità.

Questi devono essere emanati da un dirigente a meno che non operi una delega di funzione o di firma.

La delega di funzione opera come spostamento dell’esercizio di una competenza da un soggetto ad un altro (es. dal dirigente ad un funzionario).

Per questo deve essere “tipica” (prevista da una fonte normativa quale, ad esempio, l’art. 17 comma 1 bis del D.Lgs. 165/2001: “i dirigenti per comprovate ragioni di servizio possono delegare a tempo determinato, attraverso atto scritto e motivato, alcune proprie funzioni”…), conferita per iscritto, precisandone i presupposti e i limiti.

Il potere viene esercitato dal delegato in nome proprio che ne è, pertanto, direttamente responsabile. Il regime giuridico degli atti compiuti dal delegato è, in linea di massima, quello degli atti del delegante. Il delegante mantiene alcuni poteri sul delegato: quello di vigilare sul suo operato, di imporgli direttive sull’utilizzo della delega, di sostituirlo in caso di inerzia, etc. Il delegante risponde dell’operato del delegato per “culpa in vigilando” o “culpa in eligendo” (nella scelta del delegato).

Torniamo quindi alla delega come atto di fiducia. il suo carattere non è generico: le attribuzioni devono essere specifiche, non in bianco e il delegato deve possedere idoneità tecnico-professionale.

La delega di firma, invece, è uno strumento molto più semplice e flessibile.

Si tratta, infatti, di uno strumento giuridico, non previsto dalla legge ma ampiamente riconosciuto dalla giurisprudenza, che consente ad un superiore gerarchico di attribuire ad un altro dipendente il potere di apporre la propria firma su determinati atti o documenti, senza trasferire la responsabilità giuridica o le funzioni decisionali.

La delega di firma è quindi l'atto con cui un soggetto titolare di una funzione o di un ufficio amministrativo consente a un altro soggetto a lui subordinato, di firmare in sua vece, pur mantenendo la responsabilità sostanziale sull'atto. Questa delega riguarda, pertanto, solo l’apposizione della firma e non il trasferimento di alcun potere discrezionale (la decisione è sempre del delegante) e non comporta il trasferimento di alcuna responsabilità. Il delegante, in sintesi, rimane il responsabile dell'atto amministrativo, mentre il delegato compie solo una funzione formale di firma (agisce come se fosse la sua longa manus). Per questo non deve essere prevista da una fonte normativa specifica e può essere utilizzata per qualsiasi atto (non è tipica). Il delegato firma, infatti, “per conto di…”.

La sua finalità è quella di garantire continuità e operatività all’attività amministrativa, per evitare che il carico di lavoro di redazione e sottoscrizione degli atti (il cui contenuto è deciso in tutto e per tutto dal delegante). Anche questa deve essere conferita per iscritto, definendone presupposti e limiti. Tuttavia, ed è questa la vera differenza rispetto alla delega di funzione, il delegato non decide nulla, non esercita alcuna funzione: si limita a sottoscrivere per conto di un’altra persona.

L’atto di fiducia, in altre parole, è molto più limitato: anche in questo caso il delegante risponde in vigilando e in eligendo ma nei limiti del cattivo uso da parte del delegato del potere di firma di atti di cui ha deciso l’intero contenuto e forma.

Dal punto di vista giuridico, più o meno, questo è il perimetro della delega.

La delega, però, non è un mero istituto giuridico. Possiamo considerarla come la veste giuridica di fenomeni assai più ampi: l’organizzazione del lavoro, la gestione e lo sviluppo dei collaboratori, il controllo, la motivazione al lavoro, le ancore di carriera, il buon andamento delle attività.

Questo è, probabilmente, il vero nocciolo della questione. Attraverso la distribuzione delle attività e il coordinamento delle stesse si definisce, infatti, la natura di un’organizzazione e le sue principali caratteristiche.

Lo abbiamo ripetuto più volte, l’essenza della delega è la fiducia. Il delegante si fida di un’altra persona e gli affida attività di cui potrebbe occuparsi direttamente

Si tratta pertanto di uno strumento necessario all’organizzazione dell’attività lavorativa: nelle grandi come nelle piccole organizzazioni nessuno è in grado di gestire tutto, in modo centralizzato e autoreferenziale. È necessario ripartire responsabilità ed obblighi. Ma quali responsabilità e quali obblighi e a chi? Solo attraverso meccanismi formali, controlli stringenti, capillari e burocratici o lasciando vera autonomia ai propri collaboratori?

Dal punto di vista organizzativo non si può fare a meno di rilevare le numerose difficoltà concrete che si interpongono all’utilizzo della delega. Queste difficoltà possono derivare da fattori eterogenei che dipendono sia dal superiore gerarchico (mancanza di fiducia nei dipendenti, insufficiente capacità di comando, scarsa chiarezza nella definizione del compito delegato, timore di un sovraccarico lavorativo eccessivo, paura della perdita di controllo…) sia dai suoi collaboratori (insufficiente professionalità o competenza, volontà di non assumersi responsabilità, incapacità organizzativa…). In generale potremmo parlare di mancanza di cultura della delega, propria della maggior parte delle organizzazioni pubbliche e private.

Per spiegare meglio questo concetto chiederò l’aiuto di Douglas McGregor (1906 - 1964) e delle sue celebri teorie X e Y.

La teoria X, ancora tanto diffusa nella nostra cultura organizzativa, parte dal presupposto che la natura umana sia irresponsabile, svogliata, tendente a difendersi rispetto alle aspettative dell’organizzazione per cui lavora. Il lavoro avrebbe un carattere puramente strumentale, rivolto ai vantaggi che se ne possono conseguire (principalmente la retribuzione). Gli esseri umani cercherebbero non solo di minimizzare ogni sforzo per ottenere la retribuzione e sarebbero alla costante ricerca dei "difetti" dell'assetto organizzativo, per attivare comportamenti opportunistici e lavorare meno, assumendosi meno responsabilità e facendo meno sforzo. Secondo tale impostazione, è assai improbabile l’assunzione spontanea di responsabilità. Coerentemente i “capi” cercherebbero solo di sfruttare il più possibile i collaboratori e li dovrebbero controllare costantemente e puntualmente accentrando tutte le decisioni. Da una simile impostazione teorica, fondata sula sfiducia reciproca, non può che derivare una pratica organizzativa basata sulle prescrizioni, controlli formali puntualissimi, regole rigide e prescrittive, un’impostazione costrittiva e caratterizzata da totale accentramento delle decisioni rilevanti.

Vi suona qualche campanello?

Questa cultura alimenta il così detto meccanismo della “profezia che si autoavvera”: un simile ambiente lavorativo genera sospetto e demotivazione, che si riflettono in comportamenti difensivi che sono causa dei comportamenti teorizzati da tale ipotesi. Infatti, le persone trattate in modo costrittivo e deresponsabilizzante, private di ogni delega e controllate puntualmente, sviluppano atteggiamenti restrittivi ed opportunistici, confermando l’idea di una pretesa natura umana volta all’irresponsabilità.

In sostanza, trattate un adulto responsabile come se fosse un adultoide e, in men che non si dica, diverrà davvero un adultoide!

Per fortuna le evidenze empiriche sembrano confermare un’ipotesi del tutto alternativa: la così detta teoria Y.

Secondo la Teoria Y, gli ambienti di lavoro non sono solo luoghi opportunistici per arraffare uno stipendio, ma complessi ambienti sociali dove le persone realizzano una parte importante della loro vita. Per questo tendono spontaneamente ad assumere responsabilità, ad impegnarsi in modo leale, a ricercare crescita e prestigio professionali. Accogliendo questa impostazione si adotta un assetto organizzativo opposto al precedente: le regole sono una guida ai comportamenti, non gabbie formali, la delega su obiettivi è l’elemento centrale, l’autonomia e la responsabilità sono vitali per il buon funzionamento. I “capi”, infine, assumono funzioni di leader e non quella di arcigni controllori. In queste organizzazioni si innescano meccanismi di leadership e followership virtuosi dove ci si tratta da adulti responsabili e non da adultoidi, come se fossimo adolescenti irresponsabili che scimmiottano atteggiamenti da “grandi” e vanno guidati mano nella mano in modo paternalistico.

Per fortuna anche quest’approccio genera una profezia che si autoavvera: più si supportano le persone nella loro crescita, nella loro capacità di assumersi responsabilità organizzative, nel creare rapporti di fiducia, più queste tenderanno ad agire in modo responsabile e professionale.

A parole è facile, in pratica parliamo di cambiare una cultura ancora radicatissima e che si riflette in una gestione delle persone e dell’organizzazione burocratica e accentrata. Pensate ai meccanismi di reclutamento e selezione, ai percorsi di carriera, agli assetti quasi esclusivamente gerarchici di responsabilità, etc.

Sarebbe però ingiusto e profondamente sbagliato non riconoscere che qualcosa, già da qualche decennio, si sta muovendo. Il progetto AlterEgo va in questa direzione: partendo da una piccola delega si può contribuire ad una PA un po' più Y e un po' meno X, dove signore e signori maturi e nel pieno del loro vigore professionale, non sono trattati adultoidi.

Per saperne di più:

https://www.procedamus.it/lineateneiprogetti/alterego.html