La pronuncia della Corte di Cassazione fa breccia sulla disciplina delle c.d. società di comodo

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La pronuncia della Corte di Cassazione fa breccia sulla disciplina delle c.d. società di comodo

 

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la recente sentenza n. 24416 depositata l’11 settembre 2024 ha disapplicato la disciplina nazionale sulle cd. società di comodo perché in contrasto con il sistema unionale dell’Iva, e ciò in forza di un’importante interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 07 marzo 2024 nella causa C-341/22.

 

PREMESSA

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, con la recente sentenza n. 24416/2024, ha affrontato un argomento alquanto dibattuto in ambito tributario, inerente la liceità del diniego del diritto alla detrazione e rimborso dell’IVA Iva per le cd. società di comodo (ex art. 30, comma 4, della Legge 724/1994).

Ebbene, la sentenza in commento, infatti, è meritevole di attenzione perché ponendosi in sintonia con un’importante interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 07 marzo 2024 nella causa C-341/22, ha avallato il principio di diritto secondo cui le limitazioni all'esercizio del diritto di detrazione IVA, previste dall’art. 30, comma 4, della Legge 724/1994 per le c.d. società di comodo, sono incompatibili sul piano comunitario perché si fondano su una presunzione estranea alla disciplina IVA, dovendo il diritto di detrazione restare ancorato alla realtà dei fatti.

Infatti, l’art. 30 della Legge n. 724/1994 prevede, al comma 1, che le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, è inferiore a un ricavo presunto, calcolato, attraverso il c.d. test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.

Il successivo comma 4 del richiamato art. 30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che, per le società e gli enti non operativi, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’IVA non può essere chiesta a rimborso e né può costituire oggetto di compensazione “orizzontale” o di cessione ai sensi dell’art. 5, comma 4-ter, del D.L. n. 70/1988.

Tuttavia, tale normativa non è compatibile con le disposizioni comunitarie in quanto i giudici unionali, con la sentenza del 07 marzo 2024, C-341/22 , hanno avuto modo di ribadire che gli artt. 9 e 167 della direttiva 2006/112/CE non consentono di negare la qualifica di soggetto passivo e il diritto alla detrazione dell’IVA, qualora l’importo delle operazioni rilevanti non raggiunga una soglia definita dalla normativa nazionale. Infatti, il diritto alla detrazione dell’imposta può essere negato al soggetto passivo solo quando sia dimostrato, alla luce di elementi oggettivi, che esso sia stato invocato fraudolentemente o abusivamente.

In altri termini, ad avviso dei giudici comunitari, la presunzione introdotta dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, in quanto fondata esclusivamente sulla valutazione del volume delle operazioni attive, non si basa sui criteri definiti dalla giurisprudenza comunitaria, vale a dire valutando la realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini IVA effettuate dal soggetto passivo.

Pertanto, la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria, con la sentenza n. 24416 depositata l’11 settembre 2024, in applicazione della corretta interpretazione fornita dalla Corte di Giustizia UE nel caso C-341/22., ha disposto la disapplicazione delle penalizzazioni IVA connesse alla normativa riguardante le c.d. società di comodo,

 

FATTO STORICO

Al fine di comprendere appieno il contenuto della suddetta pronuncia di legittimità si rende necessario ripercorrere in breve la dinamica della vicenda in questione.

L'Agenzia delle Entrate notificava ad una società esercente l’attività di servizi nel settore turistico – alberghiero un atto di recupero con il quale richiedeva la restituzione della somma rimborsata per Iva anno 2006. In particolare, secondo l'Ufficio il rimborso dell'eccedenza Iva risultante dalla dichiarazione Iva non poteva trovare accoglimento in quanto la società nell’anno di riferimento non risultava operativa con conseguente applicazione della disciplina contenuta nell'art. 30, comma 4, della Legge 724/1994, secondo cui:

 

"4. Per le società e gli enti non operativi, l'eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell'imposta sul valore aggiunto non è ammessa al rimborso né può costituire oggetto di compensazione ai sensi dell'articolo 17 del decreto legislativo 9 luglio 1997, n. 241, o di cessione ai sensi dell'articolo 5, comma 4 ter, del decreto legge 14 marzo 1988, n. 70, convertito, con modificazioni, dalla legge 13 maggio 1988, n. 154. Qualora per tre periodi di imposta consecutivi la società o l'ente non operativo non effettui operazioni rilevanti ai fini dell'imposta sul valore aggiunto non inferiore all'importo che risulta dalla applicazione delle percentuali di cui al comma 1, l'eccedenza di credito non è ulteriormente riportabile a scomputo dell'IVA a debito relativa ai periodi di imposta successivi.".

 

Avverso il predetto atto di recupero la società contribuente proponeva tempestivo ricorso eccependo l'assoluta illegittimità nonché l’infondatezza dell'atto di diniego delle somme legittimamente richieste a rimborso e, nel merito, eccepiva che la sua inoperatività era causata dal protrarsi sia dei lavori di ristrutturazione sia dell'attesa del rilascio delle relative autorizzazioni amministrative propedeutiche all’inizio dell'attività. 

Sia i giudici di primo che di secondo grado accoglievano le eccezioni della società contribuente. Giunto dinanzi alla Corte di Cassazione, il ricorso veniva rinviato a nuovo ruolo, in attesa della decisione della Corte di giustizia dell'Unione europea sulla questione pregiudiziale della compatibilità della disciplina interna sulle cd. società di comodo alla norma unionale (causa C-341/22, 7 marzo 2024).

 

SENTENZA DELLA CORTE DI GIUSTIZIA U.E DEL 07 MARZO 2024, C-341/22

Ebbene, con la sentenza del 07 marzo 2024, C-341/22, la Corte di Giustizia U.E. ha dichiarato l’incompatibilità della disciplina italiana prevista per le c.d. società di comodo, di cui all’art. 30 della Legge 724/1994, rispetto alle regole comunitarie che governano il sistema dell’imposta sul valore aggiunto e, in particolare, rispetto al principio di neutralità dell’IVA.

In particolare, per i giudici unionali la presunzione operata dall’art. 30 della Legge n. 724/1994, che notoriamente prevede limitazioni al diritto alla detrazione dell’Iva per le società di comodo, eccede quanto necessario per prevenire i fenomeni di evasione o abuso, con conseguente illegittimità del diniego all’esercizio del diritto di detrazione I.V.A.

Infatti, secondo la sentenza della Corte di Giustizia Ue, la normativa italiana sulle società di comodo, disciplinata dall’articolo 30, comma 4, della Legge 23 dicembre 1994, n. 724, è contraria all'articolo 167 della direttiva 2006/112 e ai principi di neutralità dell'Iva e di proporzionalità, nella parte in cui prevede per le società di comodo la perdita definitiva del diritto alla detrazione dell'Iva assolta a monte.

Inoltre, è contraria anche all’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva 2006/112, in quanto nega la qualità di soggetto passivo Iva a colui che effettua operazioni rilevanti ai fini dell'Iva, «il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata» dallo stesso articolo 30, Legge 724/1994, «la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale» soggetto dispone.

Alla luce di tali considerazioni, i giudici della Corte UE hanno affermato due principi fondamentali, secondo cui:

  • l’articolo 9, paragrafo 1, della direttiva Iva 2006/112/CE deve essere interpretato nel senso che non è possibile negare la qualità di soggetto passivo Iva a colui che, in un periodo d’imposta, effettua operazioni rilevanti ai fini dell’Iva «il cui valore economico non raggiunge la soglia fissata da una normativa nazionale, la quale soglia corrisponde ai ricavi che possono ragionevolmente attendersi dalle attività patrimoniali di cui tale soggetto dispone»;
  • l’articolo 167 della direttiva Iva 2006/112/CE ed i principi di neutralità dell’Iva e di proporzionalità devono essere interpretati nel senso che non è corretta una normativa nazionale che preveda che il soggetto passivo è privato del diritto alla detrazione dell’Iva assolta a monte, a causa del fatto che l’importo delle operazioni rilevanti ai fini dell’Iva effettuate a valle dallo stesso sono considerate «insufficienti».

La questione posta all’attenzione dei Giudici della Corte di Giustizia UE ha riguardato il caso di una società italiana considerata non operativa dall’Agenzia delle Entrate per gli anni d’imposta 2006, 2007 e 2008, sul presupposto che i ricavi dichiarati erano inferiori rispetto alla soglia stabilita dal citato art. 30 della Legge 724/1994 che stabilisce che, nel caso in cui la società sia non operativa, il credito annuale emergente dalla dichiarazione annuale IVA non può essere utilizzato in compensazione, né richiesto a rimborso o ceduto, ma esclusivamente riportato nel periodo d'imposta successivo. Di conseguenza, l’Ufficio sulla base del suddetto disposto normativo ha negato alla società contribuente il diritto al rimborso IVA.

Ebbene, in tale contesto, la Corte di Cassazione, Sez. V, con l’ordinanza interlocutoria n. 16091 del 19 maggio 2022 (Presidente: Virgilio Biagio, Relatore: Catallozzi Paolo), ha chiesto alla Corte di Giustizia dell’Unione Europea di pronunciarsi sulla questione pregiudiziale circa la compatibilità della normativa italiana con quella comunitaria sul particolare tema della detrazione I.V.A. per i soggetti c.d. non operativi, ex art. 30 L. n. 724/1994.

In altri termini, l’ordinanza interlocutoria della Corte di Cassazione 16091 del 19 maggio 2022 ha sollevato dubbi sulla possibile violazione del principio di neutralità dell’Iva e conseguentemente del diritto unionale, in quanto:

«il mancato superamento del test di operatività non assumerebbe rilevanza quale prova incontrovertibile del difetto della qualità di soggetto passivo dell’ente», ma assumerebbe rilevanza solo quale fondamento della presunzione legale dell’assenza del presupposto dell’esercizio di un’attività economica, che il contribuente può superare (solo) attraverso la dimostrazione dell’esistenza di situazioni oggettive, estranee alla sua volontà, che non gli hanno consentito di realizzare operazioni imponibili per un volume di affari coerente con gli asset a disposizione. Il diritto a detrazione, infatti, è ammesso anche se manca un nesso diretto e immediato tra una specifica operazione a monte e una o più operazioni a valle che conferiscono un diritto a detrazione, nel caso in cui i costi in questione «facciano parte delle spese generali del soggetto passivo e, in quanto tali, siano elementi costitutivi del prezzo dei beni o dei servizi che esso fornisce»; queste spese, infatti, presentano un nesso diretto e immediato con il complesso delle attività economiche del soggetto passivo (come confermato dalle sentenze della Corte di Giustizia Ue C-132/16 e C-528/19). Il diritto alla detrazione è «ammesso anche in mancanza di operazioni attive, a condizione che i costi siano imputabili all’attività d’impresa».

Tanto premesso, il rinvio pregiudiziale avanzato dalla V Sezione della Corte di Cassazione, è stato affrontato e deciso dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 07 marzo 2024, C-341/22, con riferimento a due delle questioni sollevate (assorbita la terza) che hanno determinato i suddetti due principi fondamentali in grado di produrre effetti immediati in relazione a tutti i rapporti giuridici in cui al contribuente, come nel caso di specie, è stato negato il diritto alla detrazione dell’Iva ai sensi dell’art. 30 L. 724/1994.

Più nel dettaglio, la Corte di Giustizia Europea con la sentenza del 07 marzo 2024, C-341/22, ha avuto modo di rilevare l’incompatibilità della normativa italiana di cui all’art. 30 della Legge 724/1994 con la direttiva comunitaria I.v.a., posto che nessuna norma della Direttiva, subordina la detrazione al raggiungimento di una determinata soglia di operazioni rilevanti ai fini IVA, essendo ininfluenti i risultati delle attività economiche svolte dal soggetto passivo.

Di conseguenza, secondo i giudici della Corte UE, la presunzione recata dalla disciplina nazionale delle società non operative, si fonda su un criterio (i ricavi minimi) che “è estraneo a quelli richiesti ai fini della dimostrazione di un’evasione o di un abuso” per come valutati dalla giurisprudenza unionale, dato che tale criterio “non si basa sulla valutazione della realtà effettiva delle operazioni rilevanti ai fini dell’IVA effettuate nel corso di un determinato periodo d’imposta, né su quella del loro effettivo utilizzo al fine di realizzare operazioni a valle, bensì soltanto sulla valutazione del loro volume” ed è quindi inidoneo a dimostrare che il diritto di

 

SENTENZA N. 24416/2024 DELLA CORTE DI CASSAZIONE – SEZIONE TRIBUTARIA

La Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza in commento n. 24416/2024 ha disapplicato le limitazioni all’esercizio del diritto di detrazione e di rimborso IVA previste dall’art. 30 della Legge n. 724/1994 per le c.d. società di comodo, in quanto non compatibili con la disciplina comunitaria, come correttamente ribadito dalla Corte di Giustizia UE con la sentenza del 07 marzo 2024, C-341/22.

Dalla motivazione della sentenza, si evince che l’art. 30 della Legge n. 724/1994 prevede, al comma 1, che le società per azioni, in accomandita per azioni, a responsabilità limitata, in nome collettivo e in accomandita semplice, nonché le società e gli enti di ogni tipo non residenti, con stabile organizzazione nel territorio dello Stato, si considerano non operativi se l’ammontare complessivo dei ricavi, degli incrementi delle rimanenze e dei proventi, esclusi quelli straordinari, risultanti dal conto economico, è inferiore a un ricavo presunto, calcolato, attraverso il c.d. test di operatività, applicando determinati coefficienti percentuali al valore degli asset patrimoniali intestati alla società.

Il successivo comma 4 del richiamato art. 30 della Legge n. 724/1994 stabilisce che, per le società e gli enti non operativi, l’eccedenza di credito risultante dalla dichiarazione presentata ai fini dell’IVA non può essere chiesta a rimborso e né può costituire oggetto di compensazione “orizzontale” o di cessione ai sensi dell’art. 5, comma 4-ter, del D.L. n. 70/1988.

Tuttavia, come correttamente ribadito dalla giurisprudenza unionale, la suddetta normativa nazionale è incompatibile con la direttiva 2006/112/Ce in quanto si fonda su una presunzione estranea alla disciplina IVA. I giudici unionali infatti hanno sancito che gli artt. 9 e 167 della direttiva 2006/112/Ce non consentono, rispettivamente, di negare la qualifica di soggetto passivo e il diritto alla detrazione dell’IVA, nel caso l’importo delle operazioni effettuate, rilevanti ai fini dell’imposta, non raggiunga la soglia stabilita da una normativa nazionale

Pertanto, in applicazione del suddetto orientamento unionale, i giudici di legittimità, dopo avere illustrato i principi espressi dalla Corte di Giustizia UE nella menzionata causa C-341/22 – hanno osservato che la disciplina relativa alle società di comodo “non è incompatibile perché mira a disincentivare l’evasione ma perché si fonda su una ‘supposizione’, ossia su una ‘presunzione’ estranea alla disciplina IVA dovendo il diritto di detrazione restare ancorato alla ‘realtà effettiva’”.

Di conseguenza, in applicazione del suddetto orientamento fornito dalla giurisprudenza UE, il diritto alla detrazione deve essere sempre riconosciuto se:

  • la società ritenuta non operativa ha effettivamente esercitato un’attività economica, indipendentemente dallo scopo o dai risultati, nel corso del periodo d’imposta controverso;
  • la società ha impiegato i beni e servizi acquistati per le sue operazioni soggette ad imposta;
  • le operazioni non si inseriscono in una frode o non integrano un abuso ossia la “realizzazione di una costruzione artificiosa”.

In conclusione, a parere dello scrivente, la Corte di Cassazione – Sezione Tributaria – con la sentenza in commento, ha fatto buon governo dei principi già avallati dalla giurisprudenza comunitaria, disapplicando quelle limitazioni all’esercizio del diritto di detrazione e di rimborso dell’IVA previste per le c.d. società di comodo dall’30 della Legge n. 724/1994, in quanto non compatibili con la disciplina comunitaria.

Di conseguenza, il diritto alla detrazione IVA non può essere negato per la mera entità delle operazioni effettuate dal soggetto passivo, ma solo se sussiste una fattispecie di frode o un abuso.