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La retroattività delle sentenze di illegittimità costituzionale: quali limiti?

Il sole nascente
Il sole nascente

La retroattività delle sentenze di illegittimità costituzionale: quali limiti?

 

• L’orientamento giurisprudenziale secondo cui la sentenza di illegittimità costituzionale della norma non può incidere su rapporti già decisi con una sentenza passata in giudicato, deve essere rivisto alla luce dell’art. 363 c.p.c.: se il passaggio in giudicato è stato determinato dalla mancata impugnazione della sentenza, l’interpretazione (“principio di diritto”) che la Corte di Cassazione fornisce della norma stessa non può retroagire sulla sentenza non impugnata, e ciò è corretto perché in questo caso si tratta non di una norma illegittima, ma di una norma legittima, che viene interpretata dalla Corte di Cassazione in modo diverso da come fatto dal Giudice che aveva emesso la sentenza. Ma, se la norma viene dichiarata incostituzionale, tale declaratoria deve necessariamente retroagire sulla sentenza non impugnata, in quanto quest’ultima è stata emessa non sulla base di una norma legittima (e diversamente interpretata, come nel caso dell’art. 363 c.p.c.) ma sulla base di una norma illegittima.

The jurisprudential orientation according to which the sentence of constitutional illegitimacy of the law cannot affect relationships already decided with a final sentence must be reviewed in light of the art. 363 c.p.c.: if the passage into res judicata was determined by the failure to challenge the sentence, the interpretation ("principle of law") that the Court of Cassation provides of the rule itself cannot retroact on the unchallenged sentence, and this is correct because in this case is not an illegitimate rule, but a legitimate rule, which is interpreted by the Court of Cassation differently from what was done by the Judge who issued the sentence. But, if the law is declared unconstitutional, this declaration must necessarily retroact on the uncontested sentence, as the latter was issued not on the basis of a legitimate law (and differently interpreted, as in the case of art. 363 c.p.c.) but on the basis of an illegitimate rule.

• L’orientamento giurisprudenziale secondo cui la sentenza di illegittimità costituzionale della norma non può incidere su rapporti già decisi con atto amministrativo definitivo, deve essere rivisto alla luce dell’art. 8 del DPR 1199/1971, a norma del quale “contro gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per motivi di legittimità da parte di chi vi abbia interesse”. Sarebbe paradossale che il PDR – il quale nella Costituzione non è titolare di alcun potere giurisdizionale (salvo quelli di concessione della grazia e di Presidenza del CSM) – avesse il potere di annullare un atto amministrativo definitivo in quanto contrario alla “legge”, e che invece alla Corte Costituzionale – la quale ha la titolarità esclusiva della funzione di dichiarare contraria alla Costituzione (che è la “legge fondamentale”) la norma su cui l’atto amministrativo definitivo è stato basato – si impedisse di incidere su quest’ultimo.

The jurisprudential orientation according to which the ruling of the constitutional illegitimacy of the law cannot affect relationships already decided with a definitive administrative act must be reviewed in light of the art. 8 of Presidential Decree 1199/1971, according to which "an extraordinary appeal to the President of the Republic is permitted against definitive administrative acts for reasons of legitimacy by anyone with an interest". It would be paradoxical if the PDR - which in the Constitution does not hold any jurisdictional power (except those for granting pardons and the Presidency of the CSM) - had the power to annul a definitive administrative act as it is contrary to the "law", and that instead, the Constitutional Court - which has the exclusive right to declare the rule on which the definitive administrative act was based contrary to the Constitution (which is the "fundamental law") - was prevented from influencing the latter.

• L’orientamento giurisprudenziale secondo cui la sentenza di illegittimità costituzionale della norma non può incidere su rapporti per i quali sia già decorso il termine di prescrizione dell’azione giudiziale, appare sostanzialmente condivisibile, in quanto “prescrizione” significa che l’azione giudiziale non è mai stata proposta e quindi testimonia una mancanza di interesse ad agire (art. 100 c.p.c.) ancor più grave della mancata impugnazione della sentenza (in questo secondo caso, quanto meno, l’azione giudiziale è stata esercitata, anche se solo in primo grado). Tuttavia, l’art. 27 della Legge 87/1953 – a norma del quale la Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma, “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata” – dovrebbe essere modificato nel senso di prevedere che l’effetto estensivo ivi previsto si possa produrre solo a beneficio di chi abbia già sollevato questione di legittimità costituzionale delle “altre disposizioni legislative”.

The jurisprudential orientation according to which the sentence of constitutional illegitimacy of the law cannot affect relationships for which the limitation period for the judicial action has already expired appears substantially acceptable, since "prescription" means that the judicial action does not has never been proposed and therefore testifies to a lack of interest in taking action (art. 100 c.p.c.) even more serious than the failure to appeal the sentence (in this second case, at least, the judicial action was exercised, even if only in first instance ). However, the art. 27 of Law 87/1953 - pursuant to which the Court, in declaring the constitutional illegitimacy of the law, "also declares which are the other legislative provisions, the illegitimacy of which derives as a consequence of the decision adopted" - should be modified in sense of foreseeing that the extensive effect envisaged therein can be produced only for the benefit of those who have already raised the question of the constitutional legitimacy of the "other legislative provisions".

 

La questione

E’ orientamento consolidato quello secondo cui le sentenze con le quali la Corte Costituzionale dichiara l’illegittimità della norma sulla base della quale erano sorti determinati rapporti giuridici, non possono incidere, in modo retroattivo, sulle seguenti tipologie di rapporti:

- quelli che siano già stati disciplinati da una sentenza passata in giudicato

- quelli che siano già stati disciplinati con atti amministrativi definitivi

- quelli per i quali sia già decorso il termine di prescrizione

Nel presente documento si cerca di sviluppare una critica a tale orientamento, evidenziando la sussistenza di principi generali i quali hanno una rilevanza tale da imporne o una radicale revisione o, quanto meno, opportuni correttivi.

 

Il limite della “sentenza passata in giudicato”.

“Sentenza passata in giudicato” vuol dire che questa o non è stata impugnata oppure è stata impugnata mediante ricorso ma questo è stato respinto.

E’ opportuno distinguere i due casi.

Nel primo caso (sentenza non impugnata), vi è stata inerzia da parte di colui (Tizio) nei cui riguardi la sentenza ha prodotto effetti negativi, e quindi costui non ha manifestato quell’ “interesse ad agire” che l’art. 100 c.p.c. stabiliva (e stabilisce) quale presupposto per poter ottenere una pronuncia la quale, annullando la suddetta sentenza, eliminasse definitivamente tali effetti.

Un terzo (Caio) ha sollevato la questione di legittimità costituzionale della medesima norma sulla quale era stata basata la sentenza emessa contro Tizio, ed ha ottenuto dalla Corte la declaratoria di incostituzionalità di tale norma.

La domanda è: Tizio, che non aveva impugnato, può giovarsi della pronuncia ottenuta da Caio, e quindi può essere reintegrato, in virtù di quest’ultima, in quei diritti che egli non aveva fatto valere, non avendo proposto l’impugnazione?

Se la pronuncia con la quale la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale tale sentenza era stata emessa, potesse incidere su quest’ultima e quindi comportare l’eliminazione degli effetti negativi, ciò vorrebbe dire che la Corte, organo giurisdizionale, supplisce alla dimostrata inerzia del soggetto non impugnante (Tizio) e quindi interviene a colmare quella carenza di interesse ad agire che quest’ultimo aveva manifestato. Se così fosse, la sentenza di illegittimità costituzionale diverrebbe lo strumento mediante il quale la Corte si sostituisce al soggetto non impugnante nel tutelare i diritti spettanti a quest’ultimo e da lui però non esercitati mediante l’azione giudiziale. Ma ciò sarebbe contrario al principio generale in base al quale è soltanto sulla base di un “ricorso”, ossia di un atto ad iniziativa di parte e perciò di un “interesse” di quest’ultima, che il Giudice può decidere se la sentenza sia stata basata su una norma legittima od illegittima.

Tuttavia, vi è un caso in cui una sentenza può essere pronunciata da un Giudice di grado superiore a quello che ha emesso la sentenza anche quando la parte non abbia proposto ricorso. Infatti, ai sensi dell’art. 363 c.p.c., “quando le parti non hanno proposto ricorso nei termini di legge o vi hanno rinunciato, ovvero quando il provvedimento non è ricorribile in cassazione e non è altrimenti impugnabile, il Procuratore generale presso la Corte di cassazione può chiedere che la Corte enunci nell'interesse della legge il principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”.

In tal caso, però, la pronuncia in assenza di ricorso viene emessa non a favore della parte non impugnante – e, del resto, non potrebbe essere altrimenti, visto appunto che essa non ha impugnato – bensì   “nell’interesse della legge”, ossia al fine di garantire una corretta interpretazione della norma oggetto della questione, e quindi a favore di tutti coloro i quali dovessero, da oggi in poi, trovarsi ad applicarla.

La conferma di ciò viene dal fatto che “la pronuncia della Corte non ha effetto sul provvedimento del giudice di merito” (art. 363 ultimo comma c.p.c.): se il Giudice di primo grado (o di appello) aveva rigettato l’istanza della parte, e però questa non ha impugnato la sentenza, quest’ultima rimane valida, e quindi il principio di diritto “nell’interesse della legge” varrà solo per il futuro, ossia esso non estende retroattivamente i suoi effetti alla sentenza stessa.

Allora, occorre farsi una domanda: se la pronuncia con la quale la Cassazione enuncia il principio di diritto “nell’interesse della legge” non retroagisce al tempo in cui il Giudice di primo grado (o di appello) aveva emesso la sentenza non impugnata e quindi non incide su quest’ultima, si può dire che la pronuncia con cui la Corte dichiara l’illegittimità costituzionale della norma sulla base della quale tale sentenza era stata emessa retroagisce su quest’ultima?

Nel primo caso, la pronuncia viene emessa perché si avverte il bisogno di assicurare una corretta interpretazione della norma la quale, perciò stesso, continua ad essere considerata come pienamente legittima, mentre, nel secondo caso, la pronuncia viene emessa perché si ritiene che tale norma sia costituzionalmente illegittima e che quindi vada eliminata dall’ordinamento.

Nel primo caso, la mancata impugnazione della sentenza determina il mantenimento della piena validità di quest’ultima, anche se il Giudice che l’ha emessa ha applicato la norma in maniera errata (“principio di diritto al quale il giudice di merito avrebbe dovuto attenersi”), norma che comunque era e rimane legittima.

Nel secondo caso, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale (“sentenza passata in giudicato in quanto non impugnata”), la mancata impugnazione della sentenza determina il mantenimento della piena validità di quest’ultima, anche se il Giudice che l’ha emessa ha applicato una norma della quale è stata successivamente accertata l’illegittimità costituzionale.

Tuttavia – è questo il punto – un conto è una norma legittima che però avrebbe dovuto essere “interpretata diversamente” dal Giudice di primo grado (o di appello). Un altro conto è una norma illegittima, che, in quanto tale, non avrebbe dovuto essere neanche “applicata” dal Giudice. Tra legittimità di una norma la quale si prestava a differenti interpretazioni ed illegittimità di una norma che non poteva essere applicata, vi è una certa differenza, e quindi probabilmente, in questo secondo caso, la pronuncia con la quale la Corte abbia dichiarato incostituzionale la norma dovrebbe poter estendere i suoi effetti anche alla sentenza non impugnata (effetto retroattivo).

Si potrebbe fare anche questo discorso.

Sia nel primo caso (errata interpretazione della norma) sia nel secondo caso (illegittimità della norma), Tizio non ha impugnato la sentenza.

Nel secondo caso, se la sentenza fosse stata impugnata da Tizio sollevando l’eccezione di incostituzionalità della norma applicata dal Giudice (di primo grado o di appello), ciò avrebbe potuto comportare, da parte di quest’ultimo, una valutazione di rilevanza e non manifesta infondatezza della questione, e quindi Tizio, attraverso l’impugnazione, avrebbe potuto ottenere la declaratoria di illegittimità della norma, la quale declaratoria, visto che la sentenza – proprio grazie all’impugnazione – non era ancora passata in giudicato, avrebbe potuto estendere i suoi effetti anche alla sentenza. Invece, Tizio non ha fatto nulla di tutto ciò, ossia non ha manifestato quell’ “interesse ad agire” che invece dovrebbe essere diligentemente perseguito e fatto valere proprio quando ciò che si vuole contestare è non l’errata interpretazione di una norma legittima bensì l’errata applicazione di una norma che si assume essere illegittima.

A ben vedere, però, neanche nel primo caso (art. 363 c.p.c.) Tizio, leso dalla precedente sentenza, ha impugnato quest’ultima, e quindi neanche in tal caso egli ha dimostrato di avere un “interesse ad agire” volto ad ottenere una riforma della decisione e cioè una tutela del proprio diritto: egli, se avesse impugnato chiedendo una diversa interpretazione della norma, avrebbe potuto ottenere dal Giudice la riforma della decisone di primo grado (od in grado di appello). Ma sta di fatto che Tizio non ha impugnato, e che quindi anche in tal caso è mancato il suddetto “interesse”, la cui carenza deve, pertanto, essere valutata nella stessa misura, sia quando il motivo dell’impugnazione avrebbe potuto consistere nell’errata applicazione di una norma comunque legittima sia quando tale motivo avrebbe potuto risiedere nell’errata interpretazione di una norma fondamentalmente legittima.

Il risultato è stato il medesimo in entrambi i casi, ossia l’impugnazione non è stata proposta.

E quindi, sembra potersi ribadire la considerazione di partenza, ossia: quando il motivo dell’impugnazione sarebbe potuto consistere nella corretta interpretazione della norma, appare giustificato il fatto che la pronuncia con la quale la Cassazione abbia stabilito tale interpretazione non estenda retroattivamente i suoi effetti alla sentenza non impugnata (art. 363 ultimo comma c.p.c.), poiché la norma impugnata era comunque legittima; quando, invece, il motivo dell’impugnazione sarebbe potuto consistere nella illegittimità della norma applicata dal Giudice di primo grado (o di appello), la pronuncia di illegittimità dovrebbe poter estendere i suoi effetti anche alla sentenza non impugnata, in quanto la illegittimità è un qualcosa di più grave rispetto ad una cattiva interpretazione. Nel primo caso, la mancata impugnazione determina la intoccabilità della sentenza poiché questa era fondata su una norma legittima, anche se interpretata in modo non corretto. Nel secondo caso, la mancata impugnazione non dovrebbe poter determinare l’intoccabilità della sentenza poiché questa era fondata su una norma illegittima.

• Nel secondo caso (sentenza impugnata ma ricorso respinto), non vi è stata inerzia perché l’impugnazione di Tizio c’è stata ma questa è stata dichiarata infondata, ossia è stato deciso con sentenza che la norma in base alla quale il soggetto ricorrente aveva subìto un effetto restrittivo della propria sfera giuridica era pienamente legittima. Però, se poi la Corte Costituzionale, su ricorso proposto da un altro soggetto (Caio), dichiara l’illegittimità costituzionale di tale norma, questa declaratoria dovrebbe restituire meritevolezza e dignità giuridica a quell’ “interesse ad agire” che Tizio aveva manifestato impugnando la sentenza, e pertanto ciò dovrebbe implicare la piena tutela, con effetto retroattivo, dei diritti che mediante tale impugnazione si erano fatti valere, ragion per cui la pronuncia della Corte dovrebbe estendere i suoi effetti anche a tale sentenza.

Peraltro, forse è opportuno distinguere tra due ipotesi:

- quella in cui Tizio, impugnando, abbia sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma, la quale però sia stata ritenuta dal Giudice come non rilevante e manifestamente infondata;

- quella in cui invece l’impugnazione non abbia avuto ad oggetto l’illegittimità costituzionale della norma, essendo essa stata basata su motivi diversi.

Nella prima ipotesi, l’estensione della declaratoria di incostituzionalità alla sentenza impugnata, si giustifica sulla base del fatto che la Corte ha ritenuto pienamente fondato il motivo di ricorso originariamente proposto da Tizio, segno che l’ “interesse ad agire” da egli manifestato era fondato.

A sostegno di tale tesi, si osserva quanto segue.

Il Giudice di primo grado (o di appello), quando ha applicato una norma che poi successivamente la Corte ha accertato essere illegittima, ha violato, sia pur solo indirettamente, la legge fondamentale”, ossia la Costituzione.

Quindi, la sentenza del Giudice di primo grado (o di appello), è assimilabile ad una sentenza emessa in “violazione di norme di diritto”, violazione la quale, ex art. 360 n. 3 c.p.c., costituisce motivo di ricorso per Cassazione. Quest’ultima, quando annulla la sentenza per tale motivo, rinvia gli atti al Giudice che aveva emesso la sentenza impugnata (art. 383 c.p.c.), laddove quest’ultimo “deve uniformarsi al principio di diritto e comunque a quanto statuito dalla Corte” (art. 384 c.p.c.).

Pertanto, l’accertata “violazione di norme di diritto”, se comporta, nei confronti del Giudice della sentenza impugnata, l’obbligo di conformare quest’ultima a quanto stabilito dalla Corte e quindi la riforma della decisione in senso favorevole al ricorrente (art. 384 c.p.c.), dovrà necessariamente comportare, a favore di Tizio, una modifica di tale decisione quando le “norme di diritto violate” siano di rango costituzionale.

Invece, nella seconda ipotesi, la retroattività della pronuncia di illegittimità costituzionale si giustifica in modo meno agevole in quanto il ricorso era stato proposto per motivi diversi da quelli relativi alla questione di legittimità costituzionale della norma applicata dal Giudice. Quindi Tizio non può, adesso, approfittare della decisione della Corte in quanto questa si è pronunciata su un punto che non era stato oggetto del “suo” ricorso. Infatti, la decisione della Corte è arrivata all’esito di un giudizio promosso da un terzo (Caio), e non dall’impugnante.

Ed allora la domanda è questa: in tale seconda ipotesi, Tizio può giovarsi della sentenza di incostituzionalità della norma ottenuta da Caio?

Uno spunto per rispondere a questa domanda potrebbe essere rivenuto nell’art. 112 c.p.c., il quale vieta al Giudice di pronunciare su un motivo di ricorso non proposto dalla parte, e quindi di concedere alla parte un qualcosa che questa non ha chiesto.

Il “Giudice”, in tal caso, è la Corte Costituzionale, ossia un organo giurisdizionale che la parte impugnante (Tizio) non ha minimamente coinvolto, non avendo essa sollevato la relativa questione dinanzi al Giudice a quo. Ebbene, il divieto di pronuncia ultra petita, ossia oltre i limiti della domanda, vale solo per quanto riguarda il rapporto diretto tra l’impugnante ed il Giudice dell’impugnazione, e non anche nei confronti della Corte Costituzionale, la quale interviene solo successivamente al passaggio in giudicato della sentenza, in quanto essa è stata adìta da un soggetto (Caio) diverso dall’impugnante (Tizio), ragion per cui essa, nei riguardi di quest’ultimo, assume la funzione di “Giudice esterno”, e non di Giudice dell’impugnazione. In tale ipotesi, quindi, il principio previsto dall’art. 112 c.p.c. non dovrebbe applicarsi, con la conseguenza che la declaratoria di incostituzionalità potrebbe estendersi anche alla sentenza passata in giudicato.

Il limite del giudicato viene comunemente motivato con ciò: la necessità di tutelare la certezza delle situazioni giuridiche maturate in capo al soggetto il quale, dalla sentenza definitiva, abbia ottenuto un beneficio, ossia la tutela del “legittimo affidamento”.

Tuttavia, quest’ultimo non sembra assumere, all’interno dell’ordinamento, la valenza di “principio generale”. Ai sensi dell’art. 20 comma 3 della Legge 241/90 (di seguito “Legge”), “nei casi in cui il silenzio dell'amministrazione equivale ad accoglimento della domanda, l'amministrazione competente può assumere determinazioni in via di autotutela, ai sensi degli articoli 21-quinquies e 21-nonies.”

Nonostante che la legge equipari espressamente il silenzio della PA a “tacito provvedimento favorevole”,

laddove quindi l’affidamento circa la definitiva stabilità di quest’ultimo viene maturato dal privato non sulla base di un criterio – del tutto soggettivo- di ragionevolezza ma a seguito di un’espressa previsione di legge (c.d. “silenzio – assenso qualificato”), la PA è comunque ugualmente abilitata ad annullare o revocare, in via di autotutela, tale provvedimento. Ciò rappresenta la più autentica negazione della tutela del “legittimo affidamento”.

Quest’ultimo, quindi, può essere superato da un provvedimento con cui la PA annulla (o revoca) un tacito consenso che, eppure, era (ed è) previsto dalla legge (c.d. “silenzio assenso qualificato”).

Ma allora – questa è l’osservazione – il legittimo affidamento, se può essere reso inefficace da un atto amministrativo, potrà essere reso inefficace anche da una pronuncia con la quale sia stata dichiarata l’incostituzionalità della norma in base alla quale era stata emessa una sentenza poi divenuta definitiva.

La tutela della stabilità di una situazione giuridica, se non è un ostacolo per l’esercizio del potere amministrativo in senso ad essa contrario, non dovrebbe essere un ostacolo neanche per il potere giurisdizionale il quale – peraltro   mediante il suo organismo più rappresentativo (la Corte Costituzionale) – abbia sancito l’illegittimità della norma sulla base della quale tale situazione era stata protetta con sentenza.

L’obiezione consiste nel fatto che tale sentenza non era stata impugnata, e che proprio per questo essa è passata in giudicato. Ma che differenza c’è tra il privato che non ha impugnato una sentenza ed una PA che non ha adottato, entro il termine previsto, un provvedimento espresso di diniego dell’istanza? Il primo non ha esercitato una facoltà che la legge gli mette a disposizione, la seconda non ha ottemperato ad un obbligo che la legge gli impone, ossia quello di concludere il procedimento con un provvedimento espresso (art. 2 Legge), obbligo la cui inosservanza ha prodotto, a titolo di “sanzione”, il formarsi del silenzio assenso.

Forse il mancato esercizio di una facoltà è più grave rispetto al mancato adempimento di un obbligo?

Una domanda, questa, che sorge spontanea, ed alla quale chi scrive ritiene di dover dare una risposta negativa, anche considerando che l’adempimento del suddetto obbligo, ai sensi dell’art. 29 comma 2 bis della Legge, attiene ai “livelli essenziali delle prestazioni di cui all’articolo 117, secondo comma, lettera m), della Costituzione”, ossia quelle che riguardano i diritti civili e sociali.

• Il “mito” della tutela dell’affidamento costituito dalle sentenze passate in giudicato, dovrebbe essere riconsiderato anche alla luce di un altro principio: quello per cui anche i “terzi” – ossia soggetti che non hanno preso parte al giudizio - possono proporre opposizione avverso la suddetta sentenza (art. 404 comma 1 c.p.c.). Questo principio opera anche nel processo amministrativo (art. 108 comma 1 del D.lgs. 104/2010).

Il “terzo” sopra citato ha la possibilità di impugnare una sentenza definitiva la quale sia stata emessa sulla base di una norma che non è per nulla stata dichiarata illegittima. Invece, colui (Tizio) il quale, parte nel giudizio, si sia visto emettere una sentenza di condanna (o comunque di diniego della domanda) basata su una norma che poi è stata dichiarata costituzionalmente illegittima, non può far valere la pronuncia di incostituzionalità per contrastare gli effetti di tale sentenza.

Che differenza c’è tra il “terzo” di cui all’art. 404 comma 1 c.p.c. e Tizio il quale non ha impugnato la sentenza, agevolando così il passaggio in giudicato di quest’ultima? Verrebbe da dire “nessuna”, ma, a voler essere proprio precisi, occorrerebbe rispondere che Tizio, quanto meno, un ricorso lo ha proposto (quello innanzi al Giudice di primo grado), mentre il “terzo” non ha mai preso parte al giudizio.

• Altro argomento su cui si basa la tesi secondo cui la pronuncia di incostituzionalità non è estensibile ad una sentenza passata in giudicato, consiste nel fatto che la retroattività di tale pronuncia comprometterebbe l’esito del giudicato e quindi lederebbe, oltre che il principio di economicità dell’attività giurisdizionale, anche la rilevanza di quest’ultima. Normalmente, la motivazione per la quale la funzione giurisdizionale deve essere rispettata nella sua autonomia (art. 104 Cost.), consiste nel principio della separazione dei poteri, in virtù del quale né il potere legislativo né quello esecutivo possono interferire con quello giudiziario.

Ma la sentenza della Corte Costituzionale è un atto che promana dal medesimo potere giudiziario, e quindi tale atto, ove andasse ad incidere su una sentenza passata in giudicato, non potrebbe certo considerarsi lesivo della rilevanza e dell’autonomia della funzione giurisdizionale.

• Se poi spostiamo il discorso sul principio di economicità dell’attività giurisdizionale, in virtù del quale l’estensione della pronuncia di incostituzionalità alla sentenza passata in giudicato causerebbe, appunto, la lesione di tale principio, allora si dovrebbe spiegare come mai, in base all’art. 306 c.p.c., l’estinzione del processo avvenuta a seguito della rinuncia della parte alla prosecuzione del giudizio – rinuncia la quale ha dimostrato un sostanziale disinteresse della medesima alla tutela giudiziale dei propri diritti – non comporti l’estinzione dell’azione, ossia la definitiva impossibilità per la parte stessa di poter riproporre una domanda giudiziale avente lo stesso oggetto.

Il disinteresse di cui sopra ha oggettivamente leso il principio di economicità del procedimento, perché la parte ha dapprima attivato quest’ultimo con il ricorso e poi non ha proseguito nelle sue difese, e pertanto esso dovrebbe comportare la suddetta impossibilità. Ma così non è, in quanto, ai sensi dell’art. 306 c.p.c., l’azione giudiziale può nuovamente essere esercitata.

 

Il limite dell’ “atto amministrativo non più impugnabile”

Atto amministrativo non più impugnabile è quello che o non è stato impugnato oppure è stato impugnato mediante ricorso amministrativo (gerarchico ed in opposizione, ex D.P.R. 1199/1971) il quale però è stato rigettato, ragion per cui l’atto stesso è divenuto “definitivo”.

Ai sensi dell’art. 8 del DPR, “contro gli atti amministrativi definitivi è ammesso ricorso straordinario al Presidente della Repubblica per motivi di legittimità da parte di chi vi abbia interesse”.

Il fatto che i suddetti atti possano essere impugnati con ricorso straordinario al PDR, può servire a dimostrare che gli effetti prodotti dai medesimi possono essere travolti da una sentenza la quale dichiari la illegittimità costituzionale della norma in base alla quale furono emessi?

Nella Costituzione l’unica funzione svolta dal PDR in materia giudiziaria è quella relativa alla presidenza del CSM (art. 104 Cost.), e ciò comprova la “straordinarietà” della funzione ad egli assegnata in merito alla ricevibilità dei ricorsi avverso gli atti amministrativi definitivi.

La Corte Costituzionale è, invece, l’organo deputato dalla Carta a giudicare della legittimità costituzionale degli atti normativi (art. 134 Cost.), e cioè degli atti in base ai quali è stato emesso il provvedimento amministrativo.

Al PDR, che nella Costituzione non è titolare di alcun potere giurisdizionale, si assegna il compito di annullare un atto amministrativo definitivo in quanto contrario alla “legge” e quindi di difendere il primato di quest’ultima; alla Corte Costituzionale, che ha la titolarità esclusiva della funzione di dichiarare contraria alla Costituzione (che è la “legge fondamentale”) la norma sulla base della quale l’atto amministrativo definitivo è stato adottato, si impedisce di incidere su quest’ultimo.

La Corte Costituzionale, incaricata di difendere il primato della “legge fondamentale” rispetto ad una norma a questa contraria, non può intervenire sull’atto amministrativo definitivo che su tale norma era stato basato. Il PDR, incaricato di difendere il primato della “legge” – e non della “legge fondamentale” – rispetto

ad un atto amministrativo definitivo a questa contrario, può annullare quest’ultimo, nonostante la definitività. 

In questo modo viene ad essere svilito il ruolo della Corte Costituzionale quale “Giudice naturale” della conformità di una norma, attribuiva del potere amministrativo, alla “legge fondamentale”: il provvedimento amministrativo può essere anche stato adottato in violazione di una “legge”, e per tal motivo il PDR lo annulla, ma sua volta la Corte Costituzionale potrebbe accertare che questa legge è in contrasto con la “legge fondamentale”; quindi in tal caso la “legge” che è stata difesa dal PDR era illegittima, ed allora la sentenza che dichiara tale illegittimità dovrebbe avere effetto diretto nei riguardi dell’atto amministrativo definitivo, tutelando chi da tale atto era stato danneggiato.  

 

Il limite della “prescrizione”

Ai sensi dell’art. 2934 c.c., “ogni diritto si estingue per prescrizione, quando il titolare non lo esercita per il tempo determinato dalla legge”.

Tizio, creditore nei riguardi di Mevio, aveva richiesto a quest’ultimo il pagamento, ma Mevio aveva rifiutato di adempiere basando tale decisione su una determinata norma.

Tizio non ha agito giudizialmente, entro i tempi previsti, per ottenere il pagamento, e, di conseguenza, il suo diritto si è prescritto.

La Corte ha dichiarato l’illegittimità costituzionale della norma invocata da Mevio, ma, siccome Tizio non aveva proposto la domanda giudiziale volta ad ottenere l’adempimento, tale declaratoria non può produrre i suoi effetti a favore di Tizio stesso.

Tizio, proponendo la domanda di adempimento, avrebbe potuto sollevare una questione di legittimità costituzionale della norma, questione la quale avrebbe potuto essere ritenuta dal Giudice come rilevante e non manifestamente infondata, con la conseguenza che poi la Corte avrebbe potuto dichiarare l’illegittimità della stessa. Ma Tizio non ha fatto nulla di tutto ciò.

Lo ha fatto un altro soggetto (Caio), il quale è venuto a trovarsi nella sua stessa situazione e che, però, a differenza di Tizio, ha sollevato la questione ed ha ottenuto, mediante l’impugnazione, la suddetta declaratoria.

Quindi ora, se la sentenza della Corte potesse estendere i suoi effetti anche a beneficio di Tizio, quest’ultimo verrebbe a giovarsi di una pronuncia ottenuta da un altro soggetto (Caio) mediante impugnazione, ragion per cui egli, in tal modo, si avvantaggerebbe di tale impugnazione.

Certamente, quello della prescrizione è, sotto il profilo della mancanza dell’interesse all’azione giudiziale, un caso ancor più grave della sentenza passata in giudicato, perché mentre in quest’ultimo caso quanto meno è stata chiesta, tramite ricorso di primo grado, la tutela giudiziale, invece, nel caso della prescrizione, il suddetto interesse non è stato per nulla azionato.

Quindi, l’orientamento giurisprudenziale secondo il quale la pronuncia di incostituzionalità non può rimettere in discussione rapporti pregressi, nel caso in cui la parte – teoricamente interessata a far valere tale incostituzionalità – non soltanto non abbia mai impugnato ma non abbia neanche mai chiesto (prescrizione) la tutela giudiziale dei propri diritti, è difficilmente contestabile.

Tuttavia, appare opportuno soffermarsi su quanto previsto dall’art. 27 della Legge 87/1953, a norma del quale la Corte, nel dichiarare l’illegittimità costituzionale della norma, “dichiara, altresì, quali sono le altre disposizioni legislative, la cui illegittimità deriva come conseguenza dalla decisione adottata”.

La declaratoria di incostituzionalità della norma (che chiameremo “norma – base”) – avvenuta a seguito della questione di legittimità sollevata da Caio – si estende anche ad altre norme (che chiameremo “affini”) che però non erano state oggetto della questione e cioè non erano state impugnate come incostituzionali, norme che tuttavia potrebbero teoricamente essere impugnate da un altro soggetto (Tizio), in quanto quest’ultimo ha richiesto il pagamento a Mevio, ma questo si è opposto a tale richiesta invocando appunto le suddette norme affini.

Tizio, ad oggi, non ha mai citato in giudizio Mevio, quindi non ha ancora esercitato alcuna azione giudiziale, anche se è ancora nei termini per poterlo fare in quanto tale azione non è ancora prescritta.

Tizio – grazie alla sentenza di incostituzionalità della norma base ottenuta da Caio, e cioè in virtù dell’efficacia estensiva prevista dall’art. 27 – viene ad essere avvantaggiato da tale sentenza, non avendo egli più motivo di esercitare alcuna azione giudiziale.

Il punto è questo.

Nessuno ha la certezza che Tizio avrebbe citato in giudizio Mevio sollevando la questione di legittimità costituzionale delle norme affini: può darsi che lo avrebbe fatto, ma potrebbe anche darsi che non lo avrebbe fatto, lasciando cadere, in questo secondo caso, l’azione in prescrizione.

Tizio, allora, è stato semplicemente “fortunato”, poiché la pronuncia della Corte, con la quale è stata sancita l’illegittimità della norma – base, è arrivata prima ancora che il suo diritto cadesse in prescrizione: poteva accadere che tale pronuncia intervenisse quando la prescrizione era già maturata, ed in tal caso egli, in base all’orientamento consolidato, non avrebbe potuto giovarsi di tale pronuncia.

Invece, nei confronti di Sempronio, la prescrizione è maturata quando la pronuncia della Corte non era ancora stata emessa (questa, infatti, è venuta dopo), e però Sempronio, in base al consolidato orientamento, non può adesso giovarsi di tale pronuncia in quanto il suo diritto è già caduto in prescrizione.

Quale principio si vuole sostenere con tutto ciò? Che la problematica relativa alla retroattività della pronuncia di incostituzionalità a rapporti per i quali sia già decorso il termine di prescrizione, non può essere affidata alla “casualità”. Non si può premiare colui il quale (Tizio), pur essendo ancora nei termini di prescrizione previsti per esercitare l’azione giudiziale, non ha tuttavia mai manifestato alcun “interesse ad agire” (art. 100 c.p.c.), permettendogli comunque di beneficiare della sentenza di incostituzionalità della norma base ottenuta da un terzo (Caio), e condannare colui che (Sempronio) non ha esercitato l’azione giudiziale aspettando che maturasse il termine di prescrizione per questa previsto, impedendogli di beneficiare della suddetta sentenza, in quanto nessuno è in grado di garantire che Tizio, se non fosse stata sollevata da Caio la questione di costituzionalità della norma base, avrebbe sollevato la questione di costituzionalità della norma affine: può anche darsi che egli avrebbe fatto cadere la sua azione in prescrizione.

Quindi, se veramente l’intervenuta prescrizione – e cioè la mancata azione giudiziale – deve costituire un limite invalicabile anche da parte della suddetta pronuncia, allora l’art. 27 dovrebbe essere modificato nel senso di stabilire che l’efficacia estensiva della sentenza di incostituzionalità della norma – base si può produrre solo in relazione a quelle norme (“affini”) le quali siano state, anch’esse, oggetto di un ricorso, quanto meno di primo grado.

Ma l’art. 27 non prevede tale limite.

Non appare, poi, inopportuno fare un richiamo a quella che è la disciplina civilistica.

Ai sensi dell’art. 1372 c.c., “il contratto ha forza di legge tra le parti”, e quindi esso ha valore normativo.

L’azione volta a far dichiarare la nullità del contratto per contrasto con norme imperative è imprescrittibile, ma sono salvi gli effetti dell’usucapione e della prescrizione delle azioni di ripetizione (art. 1422 c.c.): quindi, il fatto che tale azione sia imprescrittibile, non significa che essa possa essere esercitata senza limiti di tempo.

Ebbene, tale azione è esercitabile non soltanto dalla parte contrattuale (Tizio) la quale si sia venuta a trovare danneggiata dal vizio di nullità, ma da chiunque vi abbia interesse (art. 1421 c.c.), e quindi anche da un terzo (Caio).

Le norme costituzionali sono “imperative” per eccellenza: non esistono disposizioni più imperative di esse.

Da ciò si deduce che Caio, esercitando l’azione giudiziale ex art. 1421 c.c., può ottenere una sentenza la quale certifichi la contrarietà della “legge negoziale” (art. 1372 c.c.) alla Costituzione. Caio, quindi, così facendo, va a beneficiare la parte contrattuale (Tizio), ossia il soggetto che era direttamente interessato a far valere tale contrarietà e che però è rimasto inerte: infatti, la suddetta azione l’ha esercitata un terzo, e non lui.

Cosa vuol dire questo? Che la parte contrattuale (Tizio) è stata semplicemente “fortunata”, in primo luogo perché l’azione a sua disposizione era imprescrittibile, e quindi essa già partiva con un notevole vantaggio rispetto a colui (poniamo Sempronio) la cui azione era soggetta ad un termine di prescrizione, e, in secondo luogo, perché, nonostante tale vantaggio, essa ha potuto ottenere una sentenza di accertamento della illegittimità della legge negoziale per contrasto con norme imperative (quindi norme, prima di tutto, costituzionali) solo grazie all’azione esercitata da un terzo.

Allora il discorso è il seguente: se della sentenza di accertamento della illegittimità di una norma per contrasto con norme costituzionali (ossia imperative) può beneficiare anche chi aveva la fortuna di poter esercitare l’azione in ogni tempo e, malgrado ciò, non la ha esercitata, laddove quindi la suddetta illegittimità è stata accertata solo grazie all’azione giudiziale di terzi, della medesima sentenza dovrebbe poter beneficiare anche il soggetto che non aveva la medesima fortuna, in quanto l’azione da lui esercitabile era soggetta ad un termine di prescrizione, e che quindi, adesso, in base al consolidato orientamento giurisprudenziale, si trova a non potersi giovare della sentenza di ottenuta da altri (ossia da coloro che hanno sollevato la questione di legittimità costituzionale della norma).

Tizio, la cui azione di nullità era imprescrittibile, è stato solo “fortunato”, in quanto la pronuncia di incostituzionalità della norma base – e la conseguente incostituzionalità della norma affine a lui sfavorevole – è arrivata prima che maturasse il termine previsto per l’usucapione del proprio diritto a favore di altri. Ma sta di fatto che egli, fino a tale momento, non aveva mostrato alcun “interesse ad agire”, esattamente come colui il quale (Sempronio) era incorso nella prescrizione.

E’ anche per questa ragione che dovrebbe ritenersi auspicabile una modifica dell’art. 27 Legge 87/1953 nel senso sopra descritto.