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L’archivio come palinsesto di bellezza

 Geminiano Vincenzi e Pietro Minghelli, “Allegoria dell’Epica”, affresco, 1811 presso Archivio di Stato di Modena, ufficio della Direzione, già sala d’udienza dei funzionari di governo della Prefettura del Dipartimento del Panaro.  Credits fotografici: Giorgio Giliberti
Geminiano Vincenzi e Pietro Minghelli, “Allegoria dell’Epica”, affresco, 1811 presso Archivio di Stato di Modena, ufficio della Direzione, già sala d’udienza dei funzionari di governo della Prefettura del Dipartimento del Panaro. Credits fotografici: Giorgio Giliberti

L’archivio come palinsesto di bellezza



Entro in Archivio. Il treno era in ritardo, strapieno, l’aria condizionata già troppo forte. Oggi c’è la consegna di un monitoraggio, uno dei tanti richiesti dall’Amministrazione, ma che stanotte non mi ha fatto dormire bene. Bisogna fare gli ultimi controlli, verificare quello che conservo nel fascicoletto cartaceo ‘cose noiose’. Poi l’agenda, anche questa rigorosamente cartacea, mi segnala diversi altri adempimenti e scadenze, i famosi ‘entro e non oltre’.

Appena chiuso il portone, intravedo davanti a me, al di là della cancellata, il nostro giardino interno, una foresta selvaggia fino a qualche anno fa, adesso una piccola oasi che non ti aspetti di trovare, a disposizione dei dipendenti dell’Archivio, gli studiosi della Sala, gli utenti e i visitatori. Un taglio di luce lo attraversa, occhieggiano il monumentale bagolaro, uno dei tre tassi, un grande fiore bianco appena sbocciato sulla longilinea magnolia. Penso che oggi mi piacerebbe fare la pausa pranzo in giardino, vicino alle piante officinali che abbiamo messo da poco a dimora, ispirandoci al prezioso e raro esemplare di hortus siccus del XVI secolo qui conservato, l’Erbario estense. Sempre che non ci siano gli studenti della nostra Scuola di archivistica, preferisco non interferire quei loro momenti di pausa in mezzo al verde tra una lezione e l’altra.

Zampetto su per lo scalone monumentale di epoca napoleonica, per arrivare alla targa del direttore Alfonso Braghiroli, trucidato esattamente 80 anni fa , il 7 agosto 1944, in quella che viene ricordata come la strage degli intellettuali di Rovereto sul Secchia. Penso subito che siamo fra i pochi Archivi di Stato a conservare il fondo dei Comitati di Liberazione Nazionale provinciali, consegnato all’Archivio proprio per la sua solida tradizione resistente, saldamente dimostrata dal direttore Pascucci negli ultimi anni della guerra e in quelli immediatamente successivi. Penso anche cosa volesse dire essere un intellettuale in quella fase storica - si un archivista era considerato un intellettuale all’epoca - e cosa vuol dire esserlo oggi, cosa vuol dire, per noi, rivendicare un ruolo di impegno civile.

Mi distraggono le risate che arrivano dall’alto, salgo la seconda rampa e mi accolgono i sorrisi delle mie colleghe. Ecco, già qui ho un po’ dimenticato la noia e la fatica mentale con cui mi ero svegliata.

Apro la porta della Direzione e, come da quasi tre anni a questa parte, rimango un momento in contemplazione dalle alte volte riccamente decorate. Sono simbolicamente rappresentati l’epica, l’espressione più alta di quelle che oggi chiameremmo narrazioni, e la storiografia, Erodoto, Plutarco e sopratutto Lodovico Antonio Muratori, per chi si occupa di storia e di fonti un demiurgo, un iniziatore, un modello. Mi cade poi l’occhio su alcuni documenti ottomani, in attesa di essere allestiti per la prossima mostra , tra cui una lettera patente di grande solennità che sancisce il patto di amicizia tra il sultano dell’impero ottomano Solimano il Magnifico e il duca d’Este Ercole II.

Mentre mi siedo e accendo il pc, penso quanto sia grande il privilegio di lavorare circondati da tanta bellezza e che, se durante la giornata la noia e la stanchezza prenderanno il sopravvento, potrò alzare la testa verso il soffitto, passeggiare per i depositi e respirare la polvere del tempo, sfogliare un momento le amate carte e stare in ascolto delle voci del passato.

Le persone possono sopravvivere con relativamente poco sforzo, ma per vivere hanno bisogno di felicità e di bellezza, una qualità, quest’ultima, che, se si hanno i mezzi per coglierla e apprezzarla, appaga i sensi e lo spirito, elevandolo.

Sono tantissime le accezioni, in senso negativo e positivo, che descrivono, ormai in modo forse un po’ abusato e retorico, gli archivi. Scrigni della memoria, simbolo e veicolo di potere, segretezza e controllo, rappresentati come un Giano bifronte, che, ben piantato nel presente, guarda allo stesso tempo al passato e al futuro.

Mi piacerebbe invece pensare agli archivi come palinsesto di bellezza e paradigma di umanità[1]. Una bellezza non in senso estetico, o meglio non solo. Facile cogliere la bellezza delle miniature, la monumentalità dei privilegi imperali e pontifici più solenni, lo stupore del pubblico quando mostriamo le antiche e dettagliatissime carte geografiche. Facile anche comprendere, ad esempio, il modello di controllo esemplificato nelle foto segnaletiche dei fascicoli della categoria A8, quella che definisce nel titolario di classificazione degli atti dell’Ufficio di Gabinetto della Questura, le “Persone pericolose per la sicurezza dello Stato”. O ancora la brutalità delle torture raccontate nei processi del Tribunale dell’Inquisizione, e potrei andare avanti a lungo.

Meno immediato cogliere il significato di un anonimo allegato, un mattinale, una relazione , un fax, un atto notarile.

Ed è invece proprio lì che si annida la forza del singolo documento e dell’archivio, il tassello di una catena che unisce un prima e un dopo e che sprigiona, così contestualizzato, tutta la sua potenza e la sua bellezza intrinseca, qualcosa in cui tutti noi possiamo sentirci parte di un continuum. Una bellezza che può curare lo spirito e la mente, uno strumento per stimolare la memoria autobiografica e migliorare il benessere cognitivo, come ci dice la Terapia della Reminiscenza. E arrivo qui all’impegno civile citato all’inizio, o meglio uno dei modi in cui si può declinare, con consapevolezza e rigore scientifico, tale impegno in questi nuovi tempi moderni, anche rinnovando il concetto di scienze del documento come scienze dello spirito.

Dal manifesto programmatico di Archivi e salute, rete di welfare culturale e prescrizione sociale, leggiamo che: “L’Organizzazione mondiale della sanità, infatti, ci dice che la cultura è una determinante sociale significativa per sostenere il benessere bio-psicosociale e l’empowerment delle persone, per favorire la prevenzione e l’assunzione di stili di vita sani, per supportare i processi cognitivi”.

In questo nuovo modello di cura sostenibile proprio gli archivi e la loro bellezza possono giocare  un ruolo fondamentale. Un primo passo verso un cambiamento profondo.

 

[1]Come ci racconterà anche Federico Valacchi in occasione del nostro primo SymposiUM, Milano, 25 ottobre 2024.