Medici o «impiegati» della Struttura sanitaria? Nuove (ed eversive?) letture della Cassazione

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Medici o «impiegati» della Struttura sanitaria? Nuove (ed eversive?) letture della Cassazione

           

Una recente sentenza della Corte di Cassazione in materia di prestazioni del c.d. medico di famiglia e di “rifiuto di atti d’ufficio” ex art. 328 co. I c.p. impone di svolgere qualche minima riflessione[1].

Il caso è noto[2]:  un medico «di base», “nonostante le continue richieste di intervento dei familiari” – come recita testualmente la sentenza in disamina –, rifiutò di eseguire “a scopo diagnostico e terapeutico” una visita domiciliare a “un assistito che lamentava forti dolori a seguito caduta accidentale, [pur essendo, quest’ultimo] anziano e affetto da patologie (Parkinson avanzato, cardiopatia ischemica cronica), [e pur versando, egli, in ] condizioni che gli impedivano di recarsi presso l’ambulatorio”.

Il caso ha ovviamente destata l’attenzione della Procura della Repubblica. In esito alle espletate indagini preliminari è stato disposto il rinvio a giudizio del medico renitente proprio per il reato di “rifiuto di atti d’ufficio”. L’impianto accusatorio rasenta gli schemi del manuale: il medico di base, quale “incaricato di pubblico servizio”, richiesto di compiere un “atto del suo ufficio”, vale a dire una visita domiciliare, l’ha indebitamente negato all’avente diritto.

Il Tribunale adito (in c.d. primo grado), ravvisando nella fattispecie in parola gli estremi del reato sub art. 328 co. I c.p., ha deliberato per la conseguente condanna dell’imputato.

 Interposto appello, il Giudice competente  ha viceversa negato la penale responsabilità del medico in questione in ordine al reato ascrittogli, sostenendo  che la «natura» della prestazione richiestagli nel caso di specie, vale a dire la visita domiciliare del paziente infortunato, avrebbe esulato dagli atti del suo ufficio, stante proprio il carattere dell’asserita urgenza della stessa visita. Lo spettro operativo nel quale si compendia il compito e l’ufficio del medico di base, infatti, secondo la Corte d’Appello, sarebbe limitato al solo ambito dell’assistenza sanitaria lato sensu ordinaria o di routine, l’urgenza medica essendo demandata ad altri comparti dell’amministrazione.

Con tanto il Giudice ha coerentemente disposta l’assoluzione dell’imputato ritenendo che sia venuto a mancare nel caso de quo il presupposto oggettivo della fattispecie incriminatrice: vero è che il reato di “rifiuto di atti d’ufficio”, punisce “l’incaricato di un pubblico servizio che indebitamente rifiuta un atto del suo ufficio, che per ragioni [… di] sanità deve essere compiuto senza ritardo”, e non invece il rifiuto di qualsiasi altra prestazione, pur rientrante nel paradigma professionale del soggetto considerato, la quale sia aliena al suo ufficio o per la quale egli non sia «istituzionalmente» preposto.

Il fatto di considerare, pertanto, l’oggetto del rifiuto opposto dal reus come atto del suo ufficio, o all’opposto il fatto di negare tale qualificazione, come in questo caso, assume rilievo dirimente in ordine alla stessa tipicità della fattispecie. Qui negata – lo ribadisco – in ragione della natura asseritamente urgente della visita.

Avverso la pronunzia assolutoria della Corte d’Appello il Procuratore generale ha interposto ricorso per Cassazione, il quale è stato finalmente rigettato con la sentenza qui in disamina.

L’assoluzione del medico, pertanto, è passata in giudicato sul presupposto che egli avrebbe rifiutata una prestazione alla quale non era tenuto.

Incidentalmente può ipotizzarsi che forse il rigetto del ricorso potrebbe essere stato favorito, almeno in parte, anche da una certa «debolezza» degli argomenti utilizzati dal Procuratore generale, cosa che, al netto di ulteriori approfondimenti i quali andrebbero pur fatti studiando tutti gl’atti di causa, può in un certo senso ora arguirsi sulla base della ricostruzione propostane, in sentenza, dagli stessi Giudici della Corte di Cassazione.

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I motivi dell’assoluzione (e della sua «conferma» in sede di legittimità) – in una sintetica concettualizzazione riassuntiva – fanno assegnamento su un’asserita diversità di funzione del medico di assistenza primaria rispetto al c.d. medico di guarda e/o al medico preposto “al servizio sanitario di urgenza ed emergenza medica già denominato 118”, come recita sempre la sentenza della Corte di Cassazione, riportando un passo di quella impugnata (e ritenuta legittima).

Il medico di assistenza primaria (c.d. di base o di famiglia), infatti, secondo l’interpretazione data dalla Corte di Cassazione e, prima, da quella d’Appello, non avrebbe competenza in materia di emergenze e urgenze sanitarie, e ciò in ossequio a una “distinzione di ruoli che […] trova la sua ratio nell’esigenza di assicurare il miglior assolvimento delle funzioni all’interno di un’organizzazione complessa qual è il sistema sanitario”, nonché – prosegue la sentenza – in ossequio “all’esigenza di evitare sovrapposizioni non soltanto inutili (il medico di base non essendo attrezzato per far fronte alle urgenze), ma anche potenzialmente dannose, ove – come ben possibile – foriere di ritardi e confusioni”.

L’errore, dunque, non sarebbe stato quello del medico che ha rifiutata una prestazione effettivamente non dovuta… ratione materiae, vale a dire per ragione di “distinzione di ruoli […] all’interno di un’organizzazione complessa”; quanto piuttosto, e all’opposto, quello dei familiari i quali hanno fatto erroneamente riferimento a un «compartimento» della “organizzazione complessa [… rappresentata dal] sistema sanitario”, diverso da quello competente per il caso del loro congiunto.

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Se poi, le “continue richieste di intervento dei familiari” in parola, presumibilmente avvenute “col mezzo del telefono”, siano addirittura idonee a integrare gli estremi del reato di “molestia o disturbo alle persone” sub art. 660 c.p. ai danni del c.d. medico di famiglia indebitamente chiamato per un’urgenza, esso, alla luce del ragionamento svolto dalla Cassazione, e pur al netto di ogni analisi inerente i profili del dolo (forse una probatio diabolica), diviene un argomento il quale potrebbe meritare una certa indagine penalistica, almeno sul piano teorico non del tutto peregrina, giacché l’insistente richiesta di una prestazione non dovuta, sovrattutto se reiterata nonostante l’indicazione di rivolgersi altrove, ben potrebbe integrare gli estremi della petulanza e del disturbo, quando non addirittura quelli della molestia.

Prima di chiamare il medico, insomma, potrebbe occorrere la necessità di prestare una certa attenzione al suo «mansionario»!

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Al di là della provocazione contenuta in quest’ ultimo rilievo, che è una provocazione solo fino a un certo punto… è comunque da rilevarsi che sulla scorta delle «considerazioni» svolte, sia la Corte d’Appello, sia la Corte di Cassazione hanno coerentemente considerato irrilevante il riferimento implicito o esplicito all’art. 47 dell’Accordo collettivo nazionale per la disciplina dei rapporti con i medici di medicina generale vigente all’epoca dei fatti, a mente del quale “l’attività medica viene prestata nello studio del medico o a domicilio, avuto riguardo alla non trasferibilità dell’ammalato” (co. I) e “la visita domiciliare deve essere eseguita di norma nel corso della stessa giornata” (co. III).

Le asserite ragioni dell’irrilevanza del riferimento in parola poggiano sull’actio finium regundorum strettamente operata dalle Corti in ordine alle «funzioni» del c.d. medico di base: quest’ultimo, infatti, non sarebbe tenuto a svolgere visite cc.dd. urgenti, né ambulatoriali, né domiciliari, le quali pertanto non costituirebbero atto del suo ufficio e prestazione da lui dovuta, in quanto facenti capo ad altre strutture dell’organizzazione sanitaria.

Ciò significa che la disciplina (obbligatoria) che regola le visite domiciliari disposta sub art. 47 dell’Accordo citato, imperniata sul tema della intrasferibilità dell’ammalato, solo avrebbe per oggetto quelle non-urgenti, vale a dire le uniche di competenza del medico c.d. di medicina generale; atto del suo ufficio, pertanto, sarebbe la visita domiciliare del paziente non-trasferibile, la quale non sia altresì caratterizzata dai requisiti dell’urgenza. E infatti, a questo proposito, la Corte osserva che la “sentenza impugnata […] distingue […] il profilo della trasferibilità del paziente (toccato dal citato Accordo Nazionale) da quello dell’urgenza della prestazione richiesta: urgenza in presenza della quale – come nel caso di specie – , trasferibile o meno che fosse il paziente, i Giudici hanno ritenuto scattasse la competenza di altra articolazione sanitaria, e cioè, nella specie, dei medici del c.d. 118”.

Nessun cenno, nemmeno implicito,  è invece fatto al Codice di deontologia medica, il quale, all’art. 8, eloquentemente rubricato “dovere di intervento”, prescrive che “il medico in caso di urgenza, indipendentemente dalla sua abituale attività, deve prestare soccorso e comunque attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza”, principio il quale destituisce immediatamente di fondamento, almeno deontologico, la tesi secondo la quale la “distinzione di ruoli […] all’interno di un’organizzazione complessa” esimerebbe – forse glielo vieterebbe? – il medico dal prestare soccorsi d’urgenza, o impedirebbe la qualificazione di questi come atti del suo ufficio.

Questi, in estrema sintesi, i temi posti sul tavolo.

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Giovano alcune considerazioni.

Preliminarmente è già discutibile, o comunque non scontata, la qualificazione della situazione medica nella quale versava il paziente infortunato come situazione di effettiva urgenza, vale a dire come situazione di concreto e attuale pericolo per la salute e la vita della persona, da trattarsi nel più breve tempo possibile per scongiurarne le più gravi conseguenze. Che il caso fosse grave, infatti, resta fuori da ogni dubbio; che esso fosse oggettivamente preoccupante, è pur vero, tutto considerando; che, però, vi fosse una tale urgenza da far ritenere l’eventuale intervento del c.d. medico di base “potenzialmente dannos[o] [… e] forier[o] di ritardi e confusioni”, è cosa quantomeno dubbia e sicuramente da problematizzarsi, non certo da darsi per iscontata, come pare abbiano fatto sia la Corte d’Appello, sia, in particolare, la Corte di Cassazione. E comunque, se anche l’urgenza fosse o fosse stata percepita in termini di così severa gravità, ciò avrebbe dovuto suggerire piuttosto un più pronto e immediato intervento del medico (al di là di qualunque disquisizione sull’interpretazione dei mansionarii), e non già una serie ripetuta di dinieghi e rinvii forieri di ulteriori ritardi.

Al di là di questo aspetto, comunque, il quale non rileva che marginalmente, è opportuno considerarsi che nel compendio argomentativo sviluppato dalla sentenza della Corte di Cassazione, oltre ad alcune discutibili valutazioni di opportunità organizzativa del servizio sanitario personalmente assunte dai Giudici (prima da quello d’Appello, poi da quelli di Cassazione) e che esulano dalle loro competenze istituzionali, manca un addentellato normativo a mente del quale debba, o almeno possa scorporarsi dai compiti del medico c.d. di base la prestazione d’urgenza, sia domiciliare, sia ambulatoriale, sia relativa al paziente intrasportabile, sia relativa al paziente trasportabile. Non consta, infatti – e se fosse in vigore porrebbe un ulteriore, grave, problema – che una norma positiva esima il medico c.d. di base dal prestare la propria opera professionale a un proprio paziente che ne abbia urgente necessità. Piuttosto consta il contrario.

Altro, infatti, è sostenere – in questo caso fondatamente – che le prestazioni di c.d. medicina d’urgenza siano compito peculiare di differenti strutture sanitarie e che esse non siano appannaggio esclusivo o prevalente del medico c.d. di base, anche per la sua (parziale) deficienza dei mezzi necessarii; e altro è ricavare – in questo caso arbitrariamente – dalla complessità dell’organizzazione sanitaria e dal fatto che la c.d. medicina d’urgenza sia affidata a peculiari strutture, una sorta di ingiustificato e illogico esonero del medico di famiglia dalla prestazione d’urgenza ai proprii assistiti, quando chiamatovi.

La norma richiamata dalla Cassazione, infatti, vale a dire l’art. 47 co. I dell’Accordo collettivo (vigente al 2005), non limita, né implicitamente, né esplicitamente, l’attività del medico c.d. di base alle sole prestazioni «ordinarie», o ai soli casi di patologia cronica e non-urgente. Al contrario, fra i “compiti individuali del medico di assistenza primaria”, ex art. 45 co. I lett. a), rientra anche, sotto la dizione di “servizi essenziali” la “gestione delle patologie acute […] secondo la miglior pratica”, ed è evidente che il manifestarsi di una patologia acuta possa anche dare luogo a un caso di urgenza, la «gestione» della quale non può essere aprioristicamente trascurata o ricusata senza inadempimento dei compiti in parola.

La competenza del c.d. medico di base per i casi d’urgenza, tuttavia, pur esclusa recisamente dai Giudici della Corte d’Appello e da quelli della Cassazione, trova nello stesso Accordo collettivo che essi hanno citato un esplicito riferimento. Anzi, oltre alla competenza de qua, nell’Accordo in parola trova esplicito riferimento anche il dovere del medico di procedere alla visita urgente “entro il più breve tempo possibile”. L’art. 47 co. V, infatti, recita testualmente: “la chiamata urgente recepita deve essere soddisfatta entro il più breve tempo possibile”. Da un tanto deve – non solo può – dedursi che la prestazione d’urgenza rientri normativamente nell’ufficio del c.d. medico di famiglia e che il suo rifiuto ingiustificato sia arbitrario.

Parafrasando il vecchio adagio, direi che lex ipsa loquitur.

Sorprende e preoccupa non poco che sia la Corte d’Appello, sia la Corte di Cassazione abbiano ritenuto di non considerare questi aspetti e di «leggere» il co. I dell’articolo in parola non solo in termini del tutto arbitrarii per ragioni di ordine logico, ma addirittura in patente contrasto con il successivo co. V, escludendo ciò che esso esplicitamente afferma.

Direi che in questo caso è stato fatto un passo innanzi, e forse anche a lato, rispetto alla c.d. giurisprudenza creativa…

Se poi si aggiunga il già citato disposto dell’art. 8 del Codice deontologico, il quale, richiamando un passo del giuramento professionale – “giuro […] di prestare soccorso nei casi d’urgenza” –, fa proprio della professione medica in quanto tale e “indipendentemente dalla […] abituale attività” del medico, il dovere di prestare “in caso di urgenza [il necessario] soccorso e comunque [di] attivarsi tempestivamente per assicurare idonea assistenza”, ciò dà conto di un quadro positivo lungi, assai lungi, da quello delineato dalle sentenze in disamina e utilizzato per mandare (ingiustamente) assolto il medico renitente.  

Non rientra nell’informazione di chi scrive la notizia di un eventuale – a mio avviso necessario – procedimento disciplinare a carico del medico in parola da parte dell’Ordine di competenza, quantomeno per la violazione del citato art. 8 del Codice deontologico. Se così fosse, però, cioè se l’Ordine non si fosse attivato, si aggiungerebbe un ulteriore, serissimo, motivo di preoccupazione, e ciò, anche per gli aspetti lato sensu formativi (o deformativi) che queste vicende assumono sovrattutto nei riguardi delle più giovani generazioni di medici.

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Qualora si voglia poi considerare, per una sorta di analisi della successione delle norme nel tempo non indifferente in materia penale, che il «nuovo» Accordo (datato 8 febbraio 2024), pur modificando in parte la dizione relativa alla regolamentazione dei “compiti del medico” (art. 43), e pur introducendo un’esplicita disciplina della “emergenza sanitaria territoriale” ex artt. 62 e ss.,  non va affatto nel senso prospettato dalle mentovate sentenze, piuttosto riaffermando i consolidati principii; ciò scansa anche l’ipotesi – peraltro assai remota – secondo la quale una più recente disciplina dell’ordinamento sanitario avrebbe esonerato i cc.dd. medici di base dalle prestazioni d’urgenza, cosa che avrebbe potuto a sua volta offrire materiale di analisi per valutare gl’ambiti (assai angusti, comunque) di un’applicazione retroattiva dell’ultima disciplina al caso in narrativa (favor rei)[3].

La tesi – che comunque nelle sentenze in disamina neppure emerge per incidens – non reggerebbe.

Basti considerare che il «nuovo» Accordo[4], dopo avere stabilito, ex art. 45 co. V, lett. b), che il medico “gestisce le patologie acute e croniche secondo la migliore pratica”, e che è compito dello stesso svolgere “le visite domiciliari, su richiesta dei propri assistiti, avuto riguardo alle condizioni cliniche e alla possibilità o meno di spostamento in sicurezza degli stessi” (co. VI lett. a)), espressamente prevede che “rientrano nei compiti ed obblighi del medico […] in attività oraria” anche “l’erogazione di prestazioni assistenziali non differibili, in sede ambulatoriale o a domicilio, a tutta la popolazione, [… e che] in relazione al quadro clinico prospettato dall’utente […] il medico effettua tutti gli interventi ritenuti appropriati […] ed attiva direttamente il servizio di emergenza urgenza – 118, qualora ne ravvisi la necessità”.

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Un ultimo aspetto va ancora considerato, sia pure con un solo cenno.

La sentenza della Cassazione qui in disamina, sulla scorta della tesi nella stessa sostenuta, nega che la pronunzia della Corte d’Appello sottoposta al suo esame si ponga in contrasto con la precedente giurisprudenza di legittimità, la quale ha tralaticiamente confermato la sussistenza del reato sub art. 328 c.p. nel caso del rifiuto di eseguire la visita domiciliare urgente opposto dal c.d. medico di guardia.

Richiamare tale giurisprudenza non è particolarmente utile al caso de quo, proprio per la differente funzione delle due figure professionali. Il discorso proposto dalla Cassazione, però, merita di essere considerato per l’errore che fa palese e che, sotto un certo profilo, ne vizia in parte qua l’intiero ragionamento. La sentenza, infatti, osserva che il c.d. medico di guardia o “medico del servizio di continuità assistenziale”, a differenza del c.d. medico di base, è formalmente preposto allo svolgimento di interventi urgenti, i quali pertanto rientrano nel suo ufficio. E l’analisi della Corte, relativamente ai compiti del c.d. medico di guardia, è corretta. Essa analisi, però, non prova che il c.d. medico di base tali compiti non abbia durante l’orario del suo ufficio, anche considerando che il servizio c.d. di guardia è attivo negli orarii nei quali non lo è quello c.d. di base.

Né la prova in parola può evincersi dal fatto che “i vari accordi collettivi nazionali […] hanno […] finora assegnato un obbligo di pronta reperibilità” al medico di guardia, il quale obbligo “non è previsto [dagli stessi Accordi] per il medico di assistenza primaria” – come si legge nella sentenza – perché altro è l’obbligo di prestare una visita urgente, quando richiesta, e altro è quello di essere reperibile, o addirittura prontamente reperibile per eventuali interventi d’urgenza. Difatti, l’Accordo del 2005, al già citato art. 47 co. V giustamente specifica che il dovere del medico c.d. di base di soddisfare la “chiamata urgente” è subordinato al recepimento della stessa – il comma parla di “chiamata urgente recepita” –. E il diverso assetto in ordine alla reperibilità del medico c.d. di famiglia e del medico c.d. di guardia è del tutto ragionevole e confacente alle differenti funzioni degli stessi: il primo essendo preposto, oltre che alle visite urgenti, a tutta una serie di attività incompatibili con la pronta reperibilità per i casi d’urgenza; viceversa il secondo è specificamente preposto a riscontrare le esigenze indifferibili degli assistiti e non anche quelle cc.dd. routinarie o legate alla gestione di cronicità cliniche.

Anche sotto questo residuale profilo, la sentenza in disamina preoccupa e delude…

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Chiudendo il contributo mi sovviene una considerazione certamente non «scientifica», ma a mio avviso significativa.

Si tratta di una lettura – non saprei citarne la fonte – che feci proprio nella camera d’aspetto di un ambulatorio ospedaliero. Se non ricordo male si trattava di una pagina ritagliata da un quotidiano e affissa in una bacheca.

Questo testo ricordava l’amplia autorità, e forse anche l’autoritarismo, sicuramente il sussiego, dei vecchi “baroni” della medicina, che – cito a memoria – preferivano il “riverisco” al “buongiorno”, e i “rispettosi ossequi” ai “cordiali saluti”, e che incutevano in tutti i loro sottoposti, di diritto o di fatto, oltre a un senso di formale inferiorità, un vero e proprio metus reverentialis. Si trattava di medici, sì in giacca e cravatta – rigorosamente – ma con indosso sempre il camice bianco, portato con orgoglio; magari bruschi nei modi e apparentemente insensibili, freddi, ma costantemente al capezzale del loro paziente – qualcuno avrebbe poi parlato, per certi aspetti anche frettolosamente, di paternalismo medico – e sempre dediti alla formazione dei colleghi più giovani, un po’ vessati, forse, questi ultimi, ma sicuramente formati con serietà e dedizione innanzitutto sul piano deontologico e professionale.

Questo era mutatis mutandis anche per i vecchi medici condotti, i quali pur spostandosi a piedi, talvolta in biciletta o a cavallo, più tardi in automobile, di giorno, di notte, con ogni situazione atmosferica, e sempre «di guardia», senza orario, erano di fatto autorità quasi assolute nell’ambito di loro competenza, sovrattutto quando questo coincideva con i piccoli comuni rurali; tant’è che nelle vecchie case di campagna era d’uso tenere l’asciugamani «buono» per quando fosse venuto il medico in visita, al quale ci si rivolgeva (come a ogn’altro professionista) con la formula “signor dottore”, segno di vera civiltà nei modi e nel tratto, e infondo di riverenza al ruolo e alla persona che ne era investita.

Ciò che mi fa riflettere, tuttavia, non è la nostalgia di un tempo passato, con i suoi difetti, come il presente; con i suoi esempii buoni e cattivi, come oggi. Piuttosto è il senso alto e profondo, radicato, della stessa professione, del decoro e dell’onore, anche sul piano sociale, che ogni professionista, in quanto tale, fino a qualche anno fa avvertiva, direi naturalmente, innanzitutto per la formazione ricevuta e per l’esempio fornitogli dai colleghi più anziani.

Il «vecchio» professionista – che non era manager, come oggi si dice all’inglese, né imprenditore – non faceva il medico, l’avvocato et coetera, ma propriamente lo era sia sul piano personale, sia sul piano sociale. E la differenza fra ciò che si fa, più o meno timbrando cartellini e facendo appello più o meno stretto ai mansionarii, e ciò che si è – e se lo si è, lo si è sempre – è proprio nel senso di identificazione con la professione, dalla quale non si va mai in ferie. Si tratta, in altri termini, di dedizione al caso, al paziente, all’allievo, all’ospedale, alla causa et similia, perché in questo, alla fine, si cementa la dignità e il decoro che quell’articolo che ho prima citato riconosceva – forse con un po’ di nostalgia – nei vecchi baroni, e che implicitamente rimproverava non essere così evidente nei nuovi… troppo sovente preoccupati piuttosto che della reputazione, dell’onore, del senso della professione cui sarebbero chiamati sul piano giuridico, morale e sociale…, degli onorari, delle parcelle, della visibilità mediatica, degli orarii di studio che non sottraggano troppo tempo al… tempo libero e così via.

 

[1] Cfr. 07 Maggio 2024 (dep. 21 Giugno 2024), Suprema Corte di Cassazione, Sez. VI – Penale, Sentenza № 24722.

[2] Cfr., per esempio, S. Pianta, Corte di Cassazione – sez. VI pen. – sent. 24722/2024: non sussiste un obbligo di visita domiciliare per il medico di base, in BioDiritto, 21 Giugno 2024 (https://www.biodiritto.org/Biolaw-pedia/Giurisprudenza/Corte-di-Cassazione-sez.-VI-pen.-sent.-24722-2024-non-sussiste-un-obbligo-di-visita-domiciliare-per-il-medico-di-base); M. Galasso, Il medico di base non ha obbligo giuridico di visita domiciliare, in Altalex, 08 Luglio 2024 (https://www.altalex.com/documents/2024/07/08/medico-base-non-obbligo-giuridico-visita-domiciliare).

[3] Occorre tenere presente che gli Accordi in parola restano comunque, sempre, subordinati alla legge (per esempio al Codice penale), non avendo essi possibilità di derogarvi ed essendone viceversa applicativi e attuativi (infatti: lex superior derogat legi inferior). Ciò non significa, tuttavia che gli Accordi medesimi, come anche la disciplina deontologica o quella c.d. regolamentare, non offrano o non possano offrire in casibus «materiale normativo» per orientare l’interpretazione e l’applicazione della stessa legge rispetto alla fattispecie concretamente considerata, o che nell’applicazione della Legge essi non vadano considerati per gli ambiti nei quali agli stessi la Legge fa implicito o esplicito rinvio. Nel caso in questione, per esempio, occorre effettivamente fare riferimento ai citati Accordi, proprio per considerare l’ampliezza dell’ufficio del medico, punto definita dalle discipline che ne regolano l’attività professionale.

[4] È da segnalarsi che a mente dell’art. 2 co. IV del citato Accordo, esso “entra in vigore dalla data di assunzione del relativo provvedimento da parte della Conferenza permanente per i rapporti tra lo Stato le Regioni e le Province autonome e rimane in vigore fino alla stipula del successivo Accordo”, onde vi si fa rinvio (cfr. Rep. atti n. 51/CSR del 4 aprile 2024).