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Terzo mondo

Conferenza di Yalta
Conferenza di Yalta

Terzo mondo

 

A un certo punto della conferenza di Yalta, mentre si discuteva sulle zone d’occupazione in Germania, Stalin domandò: “Infine, perché dobbiamo darne una anche ai francesi?”, e Roosvelt rispose: “Per bontà”. De Gaulle considerò questa risposta uno dei più brucianti affronti che la Francia e lui stesso (si sa che non faceva gran differenza) avessero mai ricevuto. “Per bontà”, voleva dire che la Francia non aveva i diritti della vittoria: non gliene restavano dalla fiacca condotta del primo anno di guerra, non ne aveva accumulati abbastanza con la resistenza e le nuove divisioni sui campi di battaglia.

De Gaulle non dimenticò mai l’offesa. Perché di De Gaulle si può pensare quel che si vuole; ma non che non possedesse, con una gelosia che sfiorava la paranoia, il senso dello Stato, e i fondamenti morali dei rapporti tra gli Stati, i principi della politica internazionale, dove nulla si regala, dove carità e bontà non ebbero mai cittadinanza. Gli Stati non praticano le virtù teologali, non debbono guadagnarsi la vita eterna, debbono prolungare più che possono la loro esistenza terrena, e basta. Se chi governa uno Stato, ha ilo dovere di trarne il vantaggio per i suoi cittadini, i soli cui debba rispondere. Il capo di uno Stato che faccia doni, regali, favori ad un altro Stato senza trarne vantaggio, defrauda e offende i suoi cittadini, perché li chiama a sopportare sacrifici senza ragione. L’interferenza, come oggi si dice, ossia la pretesa d’immischiarsi negli affari di un altro Stato, e dire il proprio parere sul suo governo e, dunque, sul suo assetto internazionale, non è prepotenza ma diritto, quando questo Stato, riconoscendo di non avere i mezzi sufficienti per vivere, ha chiesto ed ottenuto aiuto. Chi concede l’aiuto deve garantirsi di non aiutare un potenziale nemico. Questi sono i principi riconosciuti da sempre dagli Stati sovrani. Chi li rifiuta, che si strappa le vesti per l’indignazione, vuol dire che è già entrato nel Terzo mondo.

Restava questa piccola osservazione, dopo il diluvio di strepiti e indignazioni che ha tenuto dietro alle rivelazioni del Cancelliere Schmidt, che l’Italia non avrà aiuti dai suoi alleati, se metterà ministri comunisti nel governo. Tutta questa commedia di virtù offesa mi pare una prova pericolosa del nostro passaggio in quella categoria di arroganti mendicanti internazionali, che lo smembramento degl’imp0eri europei e la divisione del mondo in blocchi contrapposti ha fatto proliferare in questo dopoguerra. Le loro richieste di aiuto si fondano su argomenti come questi: devi regalarmi i soldi, perché tu li hai e io non li ho. In subordine, devi prestarmeli, pur sapendo che non te li restituirò mai. Me li devi dare per farti perdonare d’avermi colonizzato: perché hai la pelle dello stesso colore di quelli che mi hanno colonizzato; perché professi la stessa religione. Poi, me li devi dare, per farti perdonare di essere ricco. Infine, me li devi dare perché, altrimenti, passo coi tuoi nemici. Anzi, perché tu non creda di avermi comperato coi tuoi sporchi soldi, e per farti vedere come salvaguardo la mia dignità e sovranità, passerò senz’altro coi tuoi nemici, appena avrò incassato.

Detta la filosofia, aggiungo un’espressione sgradevole. Le premure di questi giorni per calmare le nostre bizze, i distinguo francesi, le critiche americane, le deplorazioni inglesi, alcuni impiastri tedeschi, non tanto ricordano la diplomazia in uso tra gli Stati di prima classe, che non è un mellifluo balletto d’inchini e sorrisi, come credono i dilettanti, ma è schietta e sovente brutale. Ricordano proprio le commedie che si recitavano per placare le smanie di certi permalosi pagliacci, da Nehru a Saukarno, da Nkrumah a Nasser a Idi Amin Dada, l’ultimo della serie. Noi rivendìchiamo il diritto ad avere i soldi che ci servono “per bontà”; perché siamo poveri ma belli, perché abbiamo il sole, Leonardo e Raffaello, perché siamo simpatici e facciamo all’amore, perché abbiamo rinunciato alla guerra, eccetera. Se ci dicono che dobbiamo dare qualcosa in cambio, prendiamo un cappello terribile e ci mettiamo a frignare sull’indipendenza minacciata; e nessuno ci ritira fuori le vecchie accuse di astuzia e cinismo, nessuno ci chiama i “florentinus” di sempre, gli eredi di Machiavelli che vogliono pugnalarci col pugnale pagato da noi. Ma tutti a dire poverini, avete ragion, non dategli peso, è il solito tedescaccio brutale. Salvo, magari, a pubblicare incorniciato, il conto dei nostri debiti con l’estero (17 miliardi più spese e interessi) come ha fatto “Le Monde”.

Vuol dire che ci hanno pensato, sanno che siamo cambiati. Longanesi diceva che i democristiani vedono lo Stato come una grande parrocchia che fa oboli. In trent’anni hanno insegnato la lezione. Tutta l’Italia vede la comunità internazionale, l’America, la Nato, l’Europa, come enormi parrocchie che devono farci oboli. “Per bontà”, senza ricambio. I debiti esteri dei Paesi cosiddetti in via di sviluppo erano 7 miliardi di dollari nel 1973, 25 miliardi nel 1974 e son saliti a 35 miliardi nel 1975. Anche noi stiamo seguendo, da anni, la stessa strada.

“In casa e fuori”, da “Il Giornale “, 3 luglio 1976