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Toulouse Lautrec: il nano era un gigante

Henri de Toulouse-Lautrec, Un angolo al Moulin de la Galette (1892); olio su tavola, 100×89,2 cm, National Gallery of Art, Washington D.C.
Henri de Toulouse-Lautrec, Un angolo al Moulin de la Galette (1892); olio su tavola, 100×89,2 cm, National Gallery of Art, Washington D.C.

Toulouse Lautrec: il nano era un gigante


Circa un cinquantennio fa, l’opera grafica di Toulouse Lautrec comparve per la prima volta in Italia ospite di una Biennale Veneziana.  Se non è stata la fantasia ad arricchire il ricordo, si trattò di una vasta rassegna, ottimamente allestita, e particolarmente ricca di disegni a matita, molti dei quali siglati in un angolo dalla ben nota autocaricatura: un omettino dalle gambe cortissime che disegna, volgendo la schiena, seduto su un minuscolo sgabello. Una specie di firma apposta per prevenire il pubblico scherno, irridendo egli stesso il proprio aspetto sgraziato ma anche predisponendo a quella che sarà una scelta polemica tra i suoi soggetti: la celebrazione-denuncia della vita nelle case chiuse.  Con questo spregiudicato comportamento il Conte de Toulouse Lautrec si burla dell’ipocrisia del suo tempo e del proprio rango, mostrando al pubblico i panni sporchi del perbenismo nobiliare e borghese, portando addirittura il riconoscimento dell’arte in un ambiente bollato come turpe ma frequentato, di nascosto, ovviamente.                                            

Nel bordello, divenuto il suo rifugio e spesso l’abitazione, della quale con sovrana indifferenza non si perita di darne l’indirizzo a amici e committenti, l’artista è considerato l’ospite che dipinge, il signore che ha scelto la convivenza con le prostitute per sfidare il dileggio della gente, per confondere con loro la fatica di vivere che lui fisserà nei dipinti. Anche il suo maestro Degas, in una serie poco nota di “monotipi” monocromi, aveva preso a modello l’ambiente delle case chiuse. Chissà se Lautrec ne era a conoscenza o addirittura li aveva visti. Probabilmente no.                                                                   

Lautrec ha un innato talento per il disegno che ha sviluppato con un lungo tirocinio accademico. Per uno di quei casi abbastanza rari tra gli artisti, la sua matita sembra muoversi sul foglio per virtù medianica, egli stesso avverte il fenomeno:<….quando la mia matita corre, bisogna lasciarla andare, altrimenti patatrac!... e poi più nulla>. Da noi, Giovanni Boldini, Amerigo Bartoli, Enrico Sacchetti, posseggono questo dono della felicità espressiva nello schizzo immediato, frutto di una eccezionale capacità intuitiva unita a una invidiabile manualità.                                                      

Quasi fosse cosciente del poco tempo che le Parche gli hanno riservato, appena una ventina d’anni di attività, Lautrec lavora in fretta, sia che imposti un cartellone réclame, che pure esegue sempre con la tecnica raffinata e manuale della litografia, sia che dipinga. Non sempre è interessato a concludere il quadro, spesso schizza la composizione velocemente e insiste unicamente sui primi piani lasciando il resto appena abbozzato, si pensi al noto dipinto Monsieur Fourcade. 

Salvo gli esempi dell’inizio, retaggio degli studi accademici, e quella che appare una opaca stanchezza nelle ultime opere, Lautrec porta nella pittura il gusto e il mestiere del grafico. In genere le sue composizioni sono il risultato di un taglio improvviso, di una inquadratura della realtà così com’è: magari una figura in primo piano e le altre come sono state sorprese: può capitare addirittura di vedere tagliato a metà un personaggio in atto di entrare o uscire, fuori tema, da una composizione che per l’artista è sempre un palcoscenico. Infatti i volti sono spesso sorpresi da una luce violenta, che è quella della ribalta, oppure hanno un tono generale soffuso da promenoir (passaggio interno) del Moulin Rouge.                                   

Il grande grafico prestato alla pittura, dipinge come disegna: il pennello sostituisce la matita quando il foglio e la pietra litografica cedono il posto alla tela. Se per il cartellone, la locandina e l'illustrazione ha tenuto fermamente presente la lezione degli amati giapponesi: eleganza, leggerezza, colori piatti e un segno che contorna e scrive volti e mani, nella pittura pensa di poter fondere le diverse esperienze. Come ha saputo sfruttare con intelligenza le nuove raffinatezze che la pietra litografica può dare: ritrovare una luce raschiando il già coperto, inventare mascherine per ottenere una sagoma dallo spruzzo, pensare forme che suggeriscano volumi; nella pittura, in quelle tele che segnano il suo momento di pienezza creativa e personalissima, Lautrec costruisce per segni larghi di colore, uno vicino all'altro sopra una traccia scura che disegna e che spesso resta in trasparenza mentre il colore tesse, compone e qualche volta conclude senza finire, lasciando questo compito alla fantasia di chi guarda.                                                                                                                      

Le sale di attesa dei bordelli, dipinte da Lautrec, non sono certo fatte per provocare il desiderio: facce tristi, annoiate, svogliate, dolenti; l'eventuale cliente, per prima cosa, dovrebbe chiedere con tono smarrito che cosa sia accaduto... Sarà perché l'artista ritrae le ragazze in attesa e quindi in assenza di clienti, quando non debbono fingere, forzare un sorriso. Nella casa chiusa dipinta negli stessi anni da Telemaco Signorini, La toilette del mattino, prevale l'indifferenza, non troviamo l'aspetto gelido, colpevolizzante, che ricorre in quelle del francese. Forse Lautrec le vedeva attraverso il proprio dolore e poneva l'accento sulla comune sorte di paria, di respinti dalla società. Nei suoi dipinti o litografie i volti di donne sorridenti sono rarissimi, solo il riso previsto dal copione.  

Sigfrido Bartolini

Articolo pubblicato su "Il Giornale" nel 1995